La vita da incubo di una giovane in una tendopoli siriana...
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Danya è un’infermiera siriana di 23 anni. L’ho conosciuta la scorsa estate durante la mia visita alla tendopoli di Qah, nella periferia di Idlib, nel nord della Siria. Mi aveva mostrato con fierezza il “centro” che gestiva: un capannone all’ingresso del campo d’accoglienza adibito a scuola per i bambini nelle ore mattutine, in cui lei stessa insegnava insieme ad altre tre ragazze e a scuola d’infermieristica nel pomeriggio. Avevano dipinto le pareti per renderlo accogliente e provvedevano loro stesse a pulirlo. Quel centro era diventato un riferimento per i bambini e le donne che da oltre due anni abitano quella tendopoli: i primi vi imparavano a leggere e scrivere, le altre apprendevano l’abc del mestiere d’infermiera. “In questa struttura stiamo costruendo la Siria di domani” – mi aveva detto – pur sempre in un campo, lontano dalle loro città ormai rase al suolo, stavano cercando di dare un senso alle loro vite e di pensare al futuro.
Danya e le altre giovani donne non hanno più la loro finestra sul mondo, il loro biglietto per il futuro. La nostra ultima conversazione ha un tono diverso. La donna che mi parla non è più la persona che guarda fuori, Danya mi racconta per la prima volta quello che accade nella sua vita privata, dentro la segretezza della sua tenda. “Non ho nessuno con cui parlare. Non ti ho mai detto nulla perché non amo lamentarmi, ma non ce la faccio più. Ora che ci hanno chiuso il centro mi sento di nuovo in gabbia, come quando siamo arrivati qui al campo. Io vivo in una tenda con la mia famiglia: siamo cinque persone. Mia madre è morta nel bombardamento sul nostro villaggio; è rimasto mio padre e le mie tre sorelle minori. Ho un fratello, che è al fronte con gli altri giovani a difendere quel che resta del nostro paese. Io provvedo alle piccole, cucino, lavo i loro abiti, le aiuto a lavarsi; ma il vero problema è mio padre: era già malato prima e da quando è morta mia madre e abbiamo lasciato il villaggio si è completamente lasciato andare. Non è più autosufficiente, ha bisogno di pannoloni, lo imbocco io, lo lavo da sola. Le bambine quando lo guardano piangono. Le devo consolare, rassicurare. Quando piove o fa freddo siamo costretti a rimanere tutti nella tenda. Ci sentiamo in prigione. A volte nostro padre si mette a urlare e piangere e non c’è modo di tranquillizzarlo. I vicini di tenda ci aiutano qualche volta, ma hanno anche loro problemi. Mi sono informata sulla possibilità di trasferirci in un altro campo, dove mio padre possa avere un’assistenza adeguata, ma non c’è nulla. Mi hanno detto di non lamentarmi, perché questo è uno dei migliori campi d’accoglienza. Altrove sono capitate cose orribili… ho saputo di ragazze sequestrate, abusate e poi abbandonate e persino di bambini rapiti che sono finiti nel traffico internazionale di organi. Non so quanto ci sia di vero, ma è terribile. Non mi resta che Allah, mi aggrappo alla fede con tutte le mie forze, altrimenti rischio di impazzire”...
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