Da chef a citizen reporter a Homs: in esclusiva la storia di Bebars Altalawy...



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27 dicembre 2013 – Homs, Ancona
La città siriana di Homs è sotto assedio da 562 giorni: un isolamento forzato che si traduce, nei fatti, in un silenzio di tomba sulla popolazione civile, stremata dalle violenze e dalle privazioni, ma di cui nessuno parla. L’unica voce che arriva da Homs è quella dei citizen reporter, comeBebars Altalawy, ventitreenne di Bab Sba’à.
Ci sentiamo con frequenza da mesi, condivido i suoi video, traduco le e divulgo le notizie che manda. A volte riusciamo a parlare per qualche minuto su Skype, con un occhio al tempo, perché manca la corrente elettrica e lui è collegato ad un generatore. Quando passano alcuni giorni senza riuscire a sentirci, l’ansia la fa da padrona.
Oggi siamo riusciti a concederci una chiacchierata più lunga. “Stanno bombardando pesantemente, mi dice; sono chiuso in casa, non posso uscire, posso dedicarti tutto il tempo che vuoi” – mi dice. “E’ impossibile raggiungere Homs, ma sarà Homs a raggiungere te”. Gli propongo un’intervista diversa: oggi ti chiedo di parlarmi di te. Accetta.
Bebars, vuoi raccontarci qualcosa di te?
“Io sono nato e sempre vissuto nella città vecchia di Homs, la stessa zona che è oggi sotto assedio, precisamente nel quartiere di Bab Sba’à. In questi quartieri lo stile di vita è rimasto quello di un tempo: siamo gente semplice, legata a certe tradizioni e abitudini che ci hanno tramandato i nostri avi e le restrizioni imposte dal regime di fatto ci hanno impedito ogni modernizzazione. Ho lasciato la scuola a 13 anni ed ho cominciato a lavorare in una bottega che produceva dolci, imparando il mestiere di pasticcere. Ho lavorato come chef nei più noti locali di Homs, poi a Damasco, in un hotel cinque stelle, poi in un’azienda francese, imparando l’arte della pasticceria occidentale. Prima dell’inizio della repressione ero Chef pasticcere addetto ai dolci occidentali (torte, pasticcini, gelato) all’Hotel Assafir, il cinque stelle più noto di Homs. Mi sono dedicato a questo mestiere per dieci anni”.
Come è cambiata la tua vita dall’inizio della repressione?
“Come accennavo prima, la politica del regime era quella di tarpare le ali alla popolazione; vivevamo come in una gabbia, stando attenti a quello che dicevamo, a chi frequentavamo. Era come vivere perennemente sotto minaccia. Dopo la strage dei bambini di Dar’à, per noi è stato spontaneo, immediato scendere in piazza: dovevamo far sentire la nostra voce, condannare le violenze contro quei bambini e le loro famiglie. Il nostro quartiere è vicino a due quartieri a maggioranza alawita, Nezha e Akrama. Fino ad allora avevamo vissuto come una grande famiglia, gli uni vicini agli altri, ma dalla prima volta che siamo scesi in piazza abbiamo visto le cose cambiare”.
In che modo sono cambiati i rapporti con gli alawiti?
“Quelle stesse persone che consideravamo fratelli, amici, bloccavano le uscite del quartiere ogni volta che c’era un raduno e ci aggredivano, prima solo con i bastoni, poi sparandoci addosso.  Abbiamo subito i loro attacchi ancor prima che l’esercito facesse irruzione in città. Abbiamo capito sin da subito che le cose stavano irreversibilmente cambiando a Homs. La maggior parte degli alawiti non avrebbero mai abbandonato assad. Loro stessi ci minacciavano dicendo che Homs sarebbe diventata la capitale alawita. Non ci capacitavamo di tanta durezza. Abbiamo continuato a scandire lo slogan ‘Id wahde’ una sola mano, auspicando che non si cadesse nella deriva settaria”.
Baba sba3 2011 secondaNonostante tutto, non vi siete mai tirati indietro…
“Come avremmo potuto? Il massacro dei bambini di Dar’à ha segnato un punto di non ritorno nelle nostre vite. Non avremmo mai più taciuto alle violenze; anzi, abbiamo criticato i nostri genitori per essere stati per tanti anni in silenzio dopo il massacro di Hama nell’82. Noi non avremmo fatto lo stesso errore. Così abbiamo continuato con le nostre manifestazioni: ogni volta c’erano feriti e martiri che cadevano. All’inizio portavamo i feriti all’ospedale, ma dopo non è stato più possibile: dopo ogni manifestazione i militari facevano irruzione negli ospedali, torturando, arrestando e spesso uccidendo i feriti. Non c’erano ancora ospedali da campo, così portavamo le persone bisognose di cura in abitazioni private, soccorrendole come potevamo. Anche i medici e gli infermieri finivano nel mirino dell’esercito”.
Quando hai lasciato il tuo lavoro per diventare citizen reporter?
“La situazione a Homs è precipitata in poche settimane, sconvolgendo per sempre le nostre vite. Più aumentavano le violenze, più persone fuggivano. Le attività commerciali hanno cominciato a chiudere una dopo l’altra. Abbiamo dovuto reinventarci: se c’era da soccorrere feriti, diventavamo infermieri, se c’era da scavare tra le macerie per salvare vite umane ci univamo alla protezione civile, se c’era da scortare famiglie in fuga lo facevamo. Abbiamo dovuto colmare il vuoto lasciato da uno stato sempre più assente, anzi, che ci era diventato ormai ostile. Io ho cominciato a dedicarmi alle riprese, a fare video, a prendere contatti con l’esterno via internet. Prima di me ha preso questa strada mio fratello Omar”.
Come ti hanno cambiato quasi tre anni di violenze?
“Ho visto morire davanti ai miei occhi tanti amici, parenti. Uccisi a sangue freddo, senza un perché. Dopo che io e mio fratello abbiamo iniziato ad apparire in video per raccontare Homs, il regime ha sequestrato e ucciso per ritorsione alcuni parenti. Il regime considera nemici tutti coloro che rompono il muro della censura e denunciano le atrocità subite dai civili, ma noi andremo avanti. La nostra vita non è come prima, ma per certi versi ora stiamo meglio: siamo costretti a subire i bombardamenti, la fame, la mancanza di medicinali, a bere l’acqua dei pozzi – che non è potabile – a veder morire i nostri cari, ma oggi moriamo da persone libere. Prima era come se le nostre stesse menti fossero sotto il controllo del regime”.
Come erano prima i rapporti tra i cristiani e i musulmani di Homs?
“Da quando sono nate queste due religioni in Siria hanno convissuto nel reciproco rispetto. Non abbiamo mai fatto differenza tra cristiani e musulmani, le nostre chiese e le nostre moschee sorgevano una affianco all’altra. Da quando il regime bombarda prende di mira in modo indiscriminato, colpendo civili e luoghi di culto di ogni religione. Per noi le cose non cambiano: siamo un unico popolo, con tutte le sue componenti. Il regime e i suoi alleati vogliono seminare odio, scatenando una violenza settaria, ma noi vogliamo rimanere uniti”.
Baba sba3 2011C’è qualcuno in particolare tra i tuoi amici che vorresti ricordare?
“Meritano tutti di essere ricordati, erano tutti fiori della gioventù siriana. Oggi vorrei ricordare Abdelmunem Shahabi, un nostro amico e vicino di casa, che aveva una bancarella di frutta e verdura. Quando l’esercito ha fatto irruzione in città si è unito ad alcuni amici militari defezionati, entrando nell’ESL (esercito sirano libero), difendendo gli ingressi dei quartieri residenziali con la sua stessa vita. Mi è morto praticamente tra le braccia. Era il 2011″.
Tu, come i tuoi amici, non eravate abituati a vedere scene di sangue. Cosa ha provocato in te vedere tanta violenza?
“E’ stato terribile. Non avevamo mai visto tanto sangue, né morti ammazzati, brandelli umani… non ci si abitua mai. Ciò che ci aiuta ad andare avanti è la solidarietà gli uni con gli altri. Quando muore uno di noi, tutti gli altri si stringono intorno alla sua famiglia. Il dolore è grande, ma ci affidiamo ad Allah”.
Vorresti mandare un messaggio al resto del mondo?
“Abbiamo mandato messaggi a tutti: ai siriani che ancora sostengono il regime, ai paesi arabi, all’Europa, alle Nazioni Unite. Non abbiamo più nulla da dire. Più si inaspriscono le violenze, più il mondo aumenta la sua indifferenza. Noi siamo scesi nelle piazze per chiedere libertà, le nostre ragioni sono universali, ma ci hanno abbandonato tutti. Allah non ci abbandona”.
26 marzo 2012 – Homs, Bebars Tellawe racconta un bombardamento in diretta sui luoghi di culto

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