Così abbiamo indagato sulla strage dei bimbi...


di Fabrizio Gatti

“L’Espresso” pubblica questa settimana, nel numero in edicola, i risultati dell’inchiesta sulla strage dei bambini siriani, avvenuta l’11 ottobre a 60 miglia a Sud di Lampedusa.
Un’indagine nostra, giornalistica. Non della magistratura. E i risultati sono agghiaccianti: mentre dal peschereccio che stava affondando supplicavano l’aiuto dell’Italia, la nave Libra della Marina militare era a poche miglia. Ma per ore non è stata coinvolta nelle operazioni di salvataggio. L’hanno mobilitata soltanto dopo il rovesciamento dell’imbarcazione piena di famiglie e bimbi. In quelle stesse ore la Guardia costiera, che aveva ricevuto la prima richiesta di soccorso, ha passato l’intervento a Malta. Nonostante gli italiani fossero molto più vicini al punto dell’imminente naufragio. “Abbiamo rispettato gli accordi internazionali”, dicono ora dal comando di Roma delle Capitanerie di porto. Ecco come sono morte oltre 260 persone: tra i sessanta e i cento bambini, i loro genitori, ragazze e ragazzi che fuggivano dalla guerra in Siria.
Sul numero in edicola dell’Espresso c’è tutta la ricostruzione, minuto per minuto, degli eventi che hanno portato alla strage. Mentre sul nostro sito potrete trovare i documenti che confermano quanto è avvenuto, l’intervista ai testimoni e le storie dei sopravvissuti. L’abbiamo chiamata la nave dei bambini.
Il pomeriggio dell’11 ottobre ero ancora a Lampedusa, proprio davanti alle banchine del porto. Verso le 17.30 un pescatore arriva e racconta di aver sentito al telegiornale la notizia di un nuovo naufragio: “A 60 miglia a Sud di Lampedusa. In tv dicono che sono usciti i soccorsi maltesi perché Malta è più vicina”, spiega il pescatore. Non è possibile. La geografia non è un elastico. Qualunque punto a 60 miglia a Sud di Lampedusa non può essere più vicino a Malta, che sulla carta del Mediterraneo è addirittura a Nord Est. Eppure gran parte dei mezzi della Guardia costiera e della Guardia di finanza sono ormeggiati. Alcuni sono ancora in mare, davanti a Cala Madonna, a dare assistenza ai sommozzatori che stanno recuperando gli ultimi cadaveri dei profughi eritrei naufragati il 3 ottobre. Gli altri sono in porto. Per molti equipaggi è un meritato momento di riposo. Il primo dopo otto giorni di durissimo lavoro. Ma quel punto a 60 miglia è sicuramente più vicino a Lampedusa che a Malta. Se c’è stato un altro naufragio, perché non li fanno uscire?
Ecco, la nostra inchiesta giornalistica è nata da quella domanda. Una ventina di minuti dopo partono a tutta forza due motovedette bianche e rosse della Guardia costiera. E nel giro di pochi istanti, i pattugliatori veloci della Guardia di finanza. Oggi, dalla ricostruzione che l’Espresso pubblica, sappiamo che quell’ordine agli equipaggi di Lampedusa è stato dato con un ritardo di almeno sei ore.
Sei ore fatali per 268 profughi siriani. Un bilancio ricavato attraverso un calcolo, una stima: 147 sopravvissuti portati a La Valletta, 56 a Porto Empedocle, 9 a Lampedusa. E la testimonianza dei superstiti, sia in Italia sia a Malta: “A bordo eravamo almeno 480-500 persone con 100, forse 150 bambini”. Quindi non sappiamo con precisione se i morti sono 268, 260, o 270. I trafficanti libici non compilano liste d’imbarco. Ma quel ritardo non solo ha contribuito alla morte dei profughi siriani: ha anche messo in pericolo gli stessi soccorritori costretti a spingere i motori al massimo. Planare sul mare a settanta all’ora al buio è sempre un rischio.
In quei giorni a Lampedusa e ad Agrigento arrivano i familiari dall’Europa, dal Nord America, dal Medio Oriente. Un’altra sfilata di dolore che si aggiunge ai parenti degli eritrei ancora alla ricerca dei loro cari. Ma almeno dei ragazzi, delle mamme, dei bambini fuggiti dalla dittatura di Asmara e annegati a 800 metri dagli scogli di Cala Madonna si possono contare i corpi. Dei siriani affondati in mezzo al mare no. Solo 26 cadaveri portati a terra. E gli altri dove sono finiti?
È così che decido di mettere a disposizione le pagine di questo blog perché le famiglie siriane sparse per il mondo possano consultare la lista dei dispersi. Le prime versioni sono in inglese e in italiano. Poi una ragazza che ha perso la sorella e la nipotina di 5 anni si offre per tradurre tutto l’elenco in arabo. Sono dispersi, sì: in un mare profondo novanta metri è ovviamente un eufemismo. Quella lista, quei nomi, quei sorrisi dei bambini nelle braccia delle loro mamme e dei loro papà hanno cominciato a dare un volto, una dimensione alla strage. E dai racconti dei sopravvissuti e dei familiari in cerca dei morti con la speranza di ritrovarli vivi, dalle loro telefonate, dalle loro email è risuonata sempre la stessa domanda: “Perché voi italiani non siete usciti a salvarli?”.
Il resoconto più lucido lo dà Mohanad Jammo, 40 anni, un medico che nel naufragio ha perso due bambini di 9 mesi e di 6 anni. È suo il telefono con il numero della centrale della Guardia costiera che, nonostante le suppliche, aveva deciso di non far partire i soccorsi da Lampedusa ma di passare l’intervento a Malta. Quel telefono, che il dottor Jammo si è ritrovato in tasca dopo essere stato recuperato dal mare, ha attraversato mezza Europa ed è finito in un laboratorio in Inghilterra per l’estrazione dei dati dalla memoria rovinata dal sale. Jammo non ricorda il numero chiamato. E l’inchiesta, cominciata quel pomeriggio dell’11 ottobre, è ancora lontana dalla sua conclusione.
Il lavoro prosegue tutti i giorni e molto spesso anche la notte. La versione ufficiale delle autorità fino a oggi non ha mai parlato di ritardi nei soccorsi. Ma un riscontro può essere trovato dall’analisi del traffico delle navi in transito quel pomeriggio. La mole di dati da esaminare e confrontare con le coordinate geografiche del naufragio però è sconfortante: quasi tredicimila.
Una sera arriva la telefonata di un ricercatore della Goldsmiths University of London, Charles Heller, tra i fondatori del progetto watchthemed.net. Heller ha letto l’articolo “Lasciati morire” pubblicato a inizio novembre da “l’Espresso”. Da anni, con l’aiuto di una rete di Ong, sta ricostruendo i viaggi delle barche di profughi affondate nel Mediterraneo. Memorabile e drammatica l’indagine intitolata “Left to die boat” su un’imbarcazione in difficoltà che nel 2011 le forze navali della Nato impegnate davanti alla Libia non hanno voluto soccorrere. Heller e io non ci siamo mai incontrati. Quindi non c’è molto da fidarsi di una voce al telefono che chiede di conoscere quanto dell’inchiesta non è stato ancora pubblicato. La mattina dopo un passaparola di contatti dall’Inghilterra, alla Germania, al Qatar garantisce che il numero da cui chiama è proprio il suo.
Heller conosce i codici dei sistemi di identificazione automatica di molte navi militari, che di solito non vengono pubblicati. E così, grazie al suo supporto, la ricostruzione dello scenario del traffico e dei soccorsi tra le 11 del mattino e mezzanotte dell’11 ottobre intorno al punto del naufragio è un po’ più semplice.
La scorsa settimana Charles trova in rete l’avviso ai naviganti codificato con la sigla “hydrolant 2545”: è la prima conferma del coinvolgimento della centrale operativa della Guardia costiera italiana nelle operazioni. Due giorni dopo alla redazione de “l’Espresso” arriva il resoconto che il comandante generale delle Capitanerie di porto e della Guardia costiera, Felicio Angrisano, ci ha scritto per smentire la testimonianza dei sopravvissuti.
A questo punto basta unire i dati presentati dall’ammiraglio Angrisano con quelli forniti dalla Marina militare, dai siriani portati vivi terra e con tutte le informazioni raccolte in questo mese e mezzo di indagini. Ecco così l’agghiacciante ricostruzione dei fatti, minuto per minuto. E lo scaricabarile tra Roma e Malta che ha ignorato il pericolo che i profughi stavano davvero correndo. Lo scaricabarile che ha contribuito al loro massacro....
(l'Espresso)

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