Shady Hamadi racconta la rivoluzione siriana – (Seconda parte)

"Ciascun siriano sa da dove viene e con questo bagaglio ricostruirà il Paese". La seconda e ultima parte del'intervista allo scrittore italo-siriano Shadi Hamadi sulla rivoluzione siriana sotto l'aspetto dei diritti umani, della realtà umanitaria e del contributo mediatico. ..
Non esiste, a mio avviso, rivoluzione politica efficace e duratura se non originata e accompagnata da una reale rivoluzione culturale: in cosa è cambiata la Siria dei vostri padri e in cosa deve ancora cambiare? Chi guiderà questo processo evolutivo e in che modo?
Gli intellettuali della rivoluzione siriana ricoprono il ruolo principale. La loro è stata una rivoluzione pacifica: sono scesi in piazza e sono stati i primi a essere arrestati, torturati e uccisi. Gli scrittori soprattutto, gli ideologi, la cui arte è maggiormente mirata, in questo caso, rispetto a quelle figurative.
La società siriana è ora in caduta libera verso l’inferno. Stiamo assistendo a un cambiamento sociale e della stessa mentalità siriana. Abbiamo vissuto per quarant’anni una desertificazione politica, l’impossibilità al confronto. Così, oggi, se metti cinque siriani al tavolo nasceranno almeno sei partiti! Il ruolo degli intellettuali è quello di rinsaldare i legami sociali e di avviare il dialogo politico e sociale. Dobbiamo coltivare la cultura del rispetto reciproco. Serve la consapevolezza che in Siria c’è bisogno di riconciliazione tra le diverse componenti religiose. Non possiamo relegare i Fratelli Musulmani in un angolo, come è avvenuto per cinquant’anni, promuovendo in tal modo lo sviluppo della loro ala più radicale. Dobbiamo inserirli in un dialogo nazionale del futuro. Io penso che la Siria debba essere uno Stato secolarizzato, perché sono troppe le differenze religiose. Noi dobbiamo puntare a uno Stato civile, in cui non conti più chi sei, ma piuttosto quali sono le tue capacità, i tuoi meriti. Se ricorderemo questa convivialità, senza farci attrarre dai particolarismi e dalle diversità, potremo consapevolmente costruire un Paese fondato sul rispetto reciproco.
A proposito di rivoluzione culturale e a proposito di stereotipi: com’è cambiata l’immagine della donna in Siria o come sta cambiando?
In Siria la donna acquisisce il diritto al voto nel 1949 e ha sempre mantenuto una posizione sociale importante. Anche durante la rivoluzione molte donne hanno ricoperto alte cariche. Tuttavia, in tempi di guerra, l’immagine della donna viene marginalizzata: è la prima vittima di stupri, è responsabile delle condizioni di vita dei figli, socialmente viene relegata ai posti più bassi. La forza della rivoluzione ha contato molti più partecipanti dalle campagne ed è proprio nei contesti di periferia che si assiste a una condizione di marginalizzazione. Ciò non è dovuto a una concezione retrograda esclusiva dei musulmani: i cristiani, come le altre minoranze, guardano con grande ortodossia alla fede, non sono i cristiani dell’Occidente. Tuttavia non si può generalizzare, la situazione è molto variabile: nei centri urbani, come Aleppo, è completamente differente.
Esiste uno scontro generazionale, nel senso più esteso del termine, tra la tua generazione e quella di tuo padre?
Questa è una rivoluzione dei figli per i propri padri: sono i giovani a morire, eppure al governo ci vanno uomini con i capelli brizzolati, come è avvenuto in Egitto. Sono i giovani a dover governare! Aspirano a una Siria differente rispetto a quella alla quale aspiravano i loro padri. È chiaro che sono comunque vittime di quarant’anni di indottrinamento veicolato dal regime, dell’assenza di spirito critico, della diseducazione di massa. Mio padre, paradossalmente, pur essendo nato nel 1943, ha una mentalità più aperta e progressista rispetto a molti ragazzi, ma la scuola di allora era differente: c’era una maggiore circolazione di idee, l’educazione era diversa. Tuttavia oggi ci sono mezzi, come i social network, che i nostri genitori non avevano.
Una rivoluzione non avviene mai per caso, né all’improvviso: ti chiedo di descrivermi cosa è stata l’opposizione in Siria prima del 2011, anche per rendere onore a quei siriani di cui l’Occidente non parla e dei quali ancora non si occupava.
La questione siriana è sempre stata gestita sulla base di rapporti economici e non nel rispetto dei diritti umani. Per questa sola ragione non è possibile riconoscere il governo come unico interlocutore. L’avvocato Riad Turk, oppositore, detto il “Mandela siriano”, ha trascorso venticinque anni in prigione: tutta la vita per i propri ideali. Ahmed Abu Ali, di cui si è occupata Amnesty International, ha trascorso dieci anni in prigione, senza poter neppure scrivere. Mustafa Khalifa, cristiano, viene arrestato con l’accusa di essere un fratello musulmano e trascorre dieci anni nella prigione di Palmira, sotto terra, sotto le rovine di questa città che tutti i turisti italiani andavano a visitare, non sapendo della prigione.
Gli oppositori erano allora marginalizzati, com’è naturale in un regime con quattordici servizi segreti e centinaia di migliaia di poliziotti. C’era molta diffidenza, molta paura tra la società civile, che era stata educata all’autocensura. Ma la società siriana sa dell’esistenza di queste prigioni, sa cosa avviene? La dottrina ci ha insegnato a vedere quella società come unico vero modello di democrazia.
Esiste una “responsabilità del popolo”? Poteva andare diversamente, pacificamente?
Una grossissima responsabilità. Tuttavia la società non si è formata da sola, è stata “costruita” dal regime attraverso l’educazione. Ci hanno provato per un anno e mezzo a risolverla pacificamente e sono morti migliaia di siriani. I primi a essere stati arrestati sono stati i pacifisti: la parola è d’altronde più forte delle pallottole. Il movimento pacifista in Siria poteva vincere se la comunità internazionale avesse capito cosa stava accadendo e avesse riconosciuto la rivoluzione siriana, la volontà di autodeterminazione del popolo.
Che ruolo ricopre attualmente l’arte in Siria?
L’arte è un vulcano ed è l’unico strumento di esorcizzazione del dolore. Non c’è neppure di che mangiare, ciononostante sono nati moltissimi giornali e radio. Dopo la censura è forte la volontà della società di raccontarsi. Questo aiuta a entrare nell’ottica del rispetto delle idee, nel desiderio di giustizia. I giovani occidentali dovrebbero imparare dai loro coetanei arabi, che lottano in nome dei valori civili che noi diamo per scontati. Hanno pagato con la vita. Paradossalmente, i nostri nonni comprendono la rivoluzione siriana meglio dei più giovani.
Quali sono, a tuo parere, i mezzi concreti per ottenere una rappresentanza politica fedele alla coscienza popolare? In quanto tempo pensi che potranno vedersi risultati concreti?
Finché l’Occidente accetta che a quattro ore di volo accada tutto ciò, non raggiungeremo alcun risultato. È necessario uscire dalla giustificazione dei jihadisti e del regime e realizzare che esiste una società civile abbandonata da due anni e mezzo. A causa di tutte queste manovre dilatatorie, ci vorrà molto tempo.
Non trovo forzato definirti uno dei timonieri di tale passaggio culturale, ma sei italiano. La tua potrebbe definirsi una “missione” mediatica e culturale sia in Siria, sia in Italia. Dove ritieni il tuo operato più rilevante? Quale credi essere il tuo ruolo in Italia?
Il mio scopo è favorire il dialogo in Siria, ma la mia missione è certamente in Italia. La mia è anzitutto una guerra all’indifferenza per fare in modo che le idee circolino e producano risultati.
Per concludere: tento sempre di porre l’accento sulla condizione individuale o quanto meno nucleare del popolo. Dunque, non ti chiedo quali siano le prospettive per la Siria, ma quali sono, oggi, le prospettive per un siriano?
(AGORA VOX)

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