Quelle mamme che stringono i figli in fondo al mare...

LE VITTIME? TRA I CADAVERI UNA DONNA E UN FETO ANCORA UNITI DAL CORDONE OMBELICALE

I corpi recuperati ora superano i 300. I sub: le nostre maschere piene di lacrime La maglietta degli azzurri Un ragazzo è stato ripescato con addosso la maglietta della nazionale di calcio italiana

DAL NOSTRO INVIATOLAMPEDUSA ? C?è una mamma che stringe il figlioletto di otto o nove anni, lì, sul ponte di prua. Sono andati giù insieme, nel gorgo della barca, in pochi istanti di terrore: lei deve aver pensato di proteggerlo fino all?ultimo. E anche adesso, serrandoselo al petto, tiene le braccia così chiuse che nemmeno il «Gigante», il carabiniere sommozzatore Gabriele Giacomone, coi suoi due metri di statura e le sue mani da fabbro buono, riesce ad aprirle: e allora, ecco, ci vuole delicatezza più che forza, piano, ci vuole amore per vincere tanto amore, adagio, cacciando il pianto indietro, nel boccaglio.C?è un ragazzetto che aveva pensato di fare bella figura sbarcando da noi, «italiani brava gente fissata col calcio», gli avevano detto di sicuro, e s?era procurato la maglia della nazionale di Prandelli, che adesso gli fluttua addosso così azzurra dentro tutto quel blu profondo, con lo scudetto tricolore che ancora sembra brillare come una promessa non mantenuta. Ci sono povere anime che attendono di essere liberate dal fardello dell?acqua e della morte senza sepoltura, e sembrano manichini deposti da un magazziniere impazzito dentro una vetrina troppo scura, lì, sul fondale, dove la barca della strage si distingue talvolta a fatica. I sub li estraggono dalle cabine e dalla stiva con estrema cura, li adagiano sulla sabbia, li assicurano all?imbracatura e li tirano su, a file di quattro o cinque, accompagnando la fila con garbo da figlioli premurosi: ormai è quasi finita, hanno trovato 302 corpi, molti altri non si troveranno più.E c?è lei, che in poche ore è diventata il simbolo finale della tragedia di Lampedusa. Avrà avuto vent?anni, forse meno. Maglietta nera con una scritta bianca in petto, «Q-Star». Lunghi capelli bruni. Collant bianchi strappati alle ginocchia sotto i pantaloni. Stava nella prima cabina di prua a sinistra, tremando, col suo pancione di sette mesi, rannicchiata per dare al suo bambino un po? di posto supplementare nella ressa dei suoi compagni di viaggio costretti a trenta centimetri ciascuno di spazio vitale. Forse immaginava di fermarsi da noi, forse sognava un futuro da italiano per quel piccolino che cresceva dentro di lei dai giorni della fuga dall?Eritrea e che doveva avere accarezzato durante quel dannato viaggio di 24 ore, da Misurata fin qui, parlandogli dolcemente, «stai tranquillo amore mio», onda dopo onda. Quando l?hanno tirata infine sul molo, martedì pomeriggio alle tre, dopo sei giorni da fantasma tra i fantasmi giù nell?abisso di cinquanta metri davanti alla spiaggia della Tabaccara, scaricandola dalla motovedetta di supporto, il piccolo era infine uscito dal suo ventre: mamma e figlio erano attaccati ancora dal cordone ombelicale, che è poi la nostra stessa idea della vita, l?inizio di tutto, e invece in questo orrore diventa soltanto un?appendice della morte, l?epilogo di un sogno non vissuto.La storia della mamma eritrea e del suo bambino ha fatto il giro d?Europa perché ieri mattina, con la voce rotta, l?ha raccontata in conferenza stampa José Manuel Barroso, il presidente della la Commissione: «Il bambino non era ancora separato da lei...». Giù al porto tutti la sanno e tutti la raccontano. Chi la racconta con maggior pudore, con la reticenza di chi la sente ancora sulla propria pelle, sono i protagonisti, i carabinieri del gruppo dei sommozzatori. Il maresciallo capo Renato Sollustri e la sua squadra si sono immersi martedì alle due di pomeriggio. Tutti i sommozzatori di tutte le armi si stanno prodigando da giorni in questo compito terribile, che scava nella mente e nell?anima di ciascuno. Quando Sollustri e i suoi arrivano alla barca sommersa, c?è un «tappo di persone» che blocca l?ingresso alla cabina di prua. Così te lo descrivono, e metterlo sulla carta è appena meno difficile che dirlo. «Sa, noi ci tenevamo tutto dentro, poi abbiamo capito che è sbagliato. Noi lavoriamo con le maschere piene di lacrime».Lentamente, con la cura che la morte non ha avuto, i carabinieri tirano dunque fuori quei poveri corpi. «Abbiamo fatto la catena per portare su la mamma del bambino di otto o nove anni, quella mamma che non voleva lasciare il figlio. E allora abbiamo visto lei, quest?altra mamma, insomma questa ragazza che stava diventando mamma». Aveva i pantaloni abbassati. Può essere stato il mare, Può darsi, come dice un medico legale bravo ed esperto come Pietro Bartolo, il direttore del poliambulatorio di Lampedusa, che la paura, l?angoscia di quegli istanti, «abbiano indotto le doglie, le abbiano accelerate». Non sappiamo, non sapremo altro degli ultimi momenti della piccola mamma eritrea e del suo neonato. Piangendo, il maresciallo capo Sollustri e i suoi uomini l?hanno adagiata sulla sabbia, piangendo l?hanno tirata su con i palloni. Il bambino è uscito allora dalla pancia della mamma, risalendo la vertigine dei cinquanta metri sott?acqua la pressione idrostatica l?ha infine liberato. «Noi una cosa così non l?abbiamo mai vista, e di cose ne vediamo tante, sotto il mare».Il mare di Lampedusa ci racconta infine l?ultimo pezzo di storia. Quella voce che si sparge in fretta sul molo. L?idea di mettere il piccolo da solo in una bara. E poi qualcuno, chissà chi, che dice «no, non possiamo separarli noi se il Signore non li aveva separati». Ora, nell?hangar dell?aeroporto, accanto alla prima fila, con le nove bare bianche da bimbi, c?è una decima bara, scura: una mamma e un figlioletto senza nome, insieme, per tutte le mamme e i bambini che vengono dall?altra parte del mare...
Buccini Goffredo
(CORRIERE DELLA SERA)

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