"Quello che ho visto in Siria"...

La Siria è sparita dall’attenzione mediatica. Il mondo ha già dimenticato tutto. Ma nell’oscurità mediatica, brillano piccole luci che provano –ancora– a raccontare l’orrore che si sta consumando a quattro ore da Fiumicino. Fra queste piccole luci, possiamo citare anche il blog “Diario di Siria” della giornalista italo-siriana Asmae Dachan (nella foto).

Asmae non si è limitata a parlare della sporca guerra siriana, battendo sulla tastiera di un computer. Ha scelto di lasciare la tranquillità di una scrivania e si è recata sul posto, ha voluto vedere con i suoi occhi l’orrore che si sta consumando nella terra dei suoi padri. Ora di nuovo in Italia, ha accettato di raccontarmi la sua esperienza e di rispondere alle mie domande: “A causa del trattamento che il regime riserva agli oppositori” –racconta– “non avevo mai visto la Siria prima d’ora. Ho conosciuto il paese delle mie origini solo ora, trovando in mezzo a paesaggi e città millenarie, un’infinita distesa di macerie.”
“Sulla tragedia siriana” –prosegue– “incombe un silenzio profondo, con buona parte dei media internazionali che ancora citano solo fonti governative di Damasco; non dimentichiamo che la Siria è un Paese sotto dittatura da oltre 40 anni e ciò significa che i media sono sotto il controllo delle autorità e quindi veicolano esclusivamente notizie di propaganda. L'alternativa ci sarebbe: siamo nell'epoca di internet e, con le dovute cautele, si riesce anche ad avere tutt'altro tipo di notizie in tempo reale, con foto, video, racconti che citizen reporter condividono ogni giorno, rischiando sempre più spesso la vita. Con il mio viaggio ho voluto portare in Italia la mia testimonianza diretta, raccolta a contatto con la gente, con cui ho parlato senza bisogno di interpreti, grazie al fatto che sono bilingue.”
Il viaggio di Asmae inizia il 14 agosto e termina il 28. Inizia visitando i campi profughi della Turchia, poi attraversa il confine e raggiunge le città di Idlib, Sarmada e Aleppo. Non è certo una scampagnata: “Muoversi come giornalista comporta numerosi rischi: da un lato le persone avevano voglia e bisogno di raccontare e denunciare, dall'altro avevano paura. Non bisogna dimenticare, inoltre, che i giornalisti sono considerati nemici dal regime, che non vuole testimoni.” Le chiedo se ha mai avuto paura: “Paura? La prima volta che ho sentito un'esplosione ho guardato le persone intorno a me, per capire cosa dovevo fare; sono rimasta stupita della tranquillità con cui hanno reagito. 'Siamo abituati ormai', mi hanno detto. Diverso è stato l'incontro ravvicinato con il cecchino: ero nella zona dell'antico Suq di Aleppo e la mia guida mi ha portato in una zona da cui avrei potuto fotografare l'antica rocca da lontano; un cecchino si è accorto di me. Ma la foto l'ho fatta comunque. Però non ho mai desiderato tornare indietro. Vorrei tornare in Siria presto e continuare a raccogliere le testimonianze dei civili”.
Nel corso del viaggio, spiega che è stata aiutata ad associazioni umanitarie, muovendosi accompagnata da persone del posto, che sanno come muoversi e come non dare nell’occhio. “Ho voluto provare” –dichiara- “sulla mia pelle la vita in un campo profughi, dormendo in tenda, bevendo l’acqua del pozzo, condividendo il pasto delle famiglie che mi hanno ospitata. Sono stata anche in scuole che accolgono famiglie sfollate: classi trasformate in case, senza nessun tipo di confort. L'elettricità manca da mesi; chi ne è fornito, aziona i generatori, altrimenti è buio pesto.”
Nel corso del viaggio, Asmae raccoglie storie e ascolta gli incubi di un popolo che soffre: “Ovunque ho trovato donne, uomini e bambini provati, che hanno subito lutti, che hanno perso tutto, ma non la loro dignità e bontà d'animo. Mi hanno accolta con grande cortesia, arrivando persino a scusarsi con me per la poca comodità delle brandine, invitandomi a tornare a trovarli quando torneranno nelle rispettive città, alla loro vita, se mai ci torneranno. In ogni tenda ho ascoltato una tragedia, storie di donne stuprate, di genitori che hanno dovuto tumulare i propri figli, bambini che sono rimasti orfani, interi villaggi in fuga; ho visto con i miei occhi centinaia di bambini che hanno contratto malattie della pelle dovute alle pessime condizioni igieniche. Ho convissuto con gli spari dei cecchini e qualche bombardamento, qualche esplosione. L'adrenalina mi ha accompagnata per tutto il viaggio: la stanchezza è arrivata solo al ritorno a casa.”
Vede e racconta la vita degli sfollati, fra i rifugiati in Turchia “dove i campi hanno una loro vita strutturata e i profughi sono ospitati da oltre due anni; hanno schede identificative, ricevono un sussidio e ora dall'assistenzialismo fine a se stesso si sta passando alla creazione di piccole attività che permettano a uomini e donne di lavorare” e i campi della Siria dove “la situazione è completamente diversa: è un continuo fluire di persone che sono assistite da svariate Ong. Il campo più grande è quello di Atma, al nord di Idlib, che è arrivato ad ospitare fino a 28 mila persone. Ha le parvenze di una città, ma è un'immensa distesa di tende precarie e sta arrivando l'inverno e gli inverni sono rigidi, piove e nevica. Nei campi ho visto tanta desolazione, tanta noia, tanta paura; ci sono persone che hanno perso ogni speranza e convivono con il loro dolore. Altre che non si vogliono arrendere e cercano di reagire, dedicandosi ai bambini, impegnandosi ad insegnare loro a leggere e scrivere. I campi profughi sono prigioni a cielo aperto, ma come mi hanno detto le persone che vi abitano: 'almeno qui non ci dovrebbero bombardare'.”
I bambini ritornano spesso nei suoi ricordi: “perché, come mi ha insegnato Sebastiano Nino Fezza, ‘bisogna raccontare la guerra mettendosi all’altezza di un bambino, solo così si vedrà davvero la gravità degli eventi’. I bambini sono quelli che pagano il prezzo più alto, eppure a loro non si interessa più nessuno. Nessuno ne parla, muoiono nel silenzio e nell’indifferenza della comunità internazionale. Ad oggi ne sono morti diecimila, migliaia sono mutilati, violenze e privazioni hanno provocato in loro danni fisici e psicologici irreversibili. I bambini profughi sono un milione, non sanno neanche cos’è una casa. Io racconto le loro storie dall'inizio della repressione, grazie ai contatti con citizen reporter siriani che con le loro testimonianze raccolte tra la gente ci hanno offerto dall'inizio il volto dimenticato di questa tragedia, quello 'umano', dei bambini che sotto quei bombardamenti muoiono, che convivono, come a Homs, con un assedio che dura da oltre 500 giorni. “
Anche quando ero in Siria mi sedevo sempre in mezzo ai bambini, parlavo con loro, li ascoltavo; restavo stupita della loro maturità e della dignità con cui stanno affrontando tutto questo. Mi hanno descritto scene terrificanti, nominando più volte la paura; i loro disegni sono una forte denuncia del loro difficile stato emotivo: ritraggono carri armati, bambini sanguinanti, case distrutte. Da quando sono tornata ogni giorno ripenso ai loro visi angelici e mi chiedo se sono ancora vivi. Ieri (il 23/09 per chi legge ndr) sono morti di stenti due bambini a Moadamieht AlSham; avevano bisogno di nutrimenti e cure ma il loro villaggio è sotto assedio da cento giorni." 
"C’è un'intera generazione che non va a scuola per il terzo anno consecutivo; tanti bambini mi hanno descritto con minuzia scene di violenza a cui hanno assistito, rumori di spari, esplosioni, bombardamenti, fino alle esecuzioni in strada. Un bambino mi ha raccontato dell'esecuzione del padre, ucciso davanti ai suoi occhi per aver soccorso dei feriti con il suo taxi; mi ha pregato di portare in Italia la sua storia, facendo sapere al mondo che è figlio di un eroe. Ho assistito alla scena di un padre che preparava il figlio per la tumulazione: lo lavava e lo accarezza come se stesse dormendo e invece era morto, ucciso da un cecchino.”
“È inconcepibile” –denuncia– “l'indifferenza della comunità internazionale rispetto al dramma dei bambini siriani: è in pericolo il loro presente, ma anche il loro futuro. Lo ripeto: c'è un'intera generazione in Siria che rischia di non diventare adulta, di morire prima ancora di diventare adolescente.”
Le domando cosa pensano i siriani di quello che sta succedendo. La risposta mi sorprende, mi dice che non ha mai sentito la parola “harb”, guerra. Le persone preferiscono usare “sawra”, rivolta oppure “hisar” assedio, “hujum”, aggressione, “azme”, crisi o “ma’asat”, tragedia. Ma non “harb” perché “in Siria non ci sono due eserciti contrapposti, ma un popolo inerme che si è trovato a dover affrontare la repressione armata di un governo che in teoria avrebbe dovuto rappresentarlo, tutelarlo e proteggerlo.” Una situazione che si è aggravata pesantemente perché, oltre all’esercito regolare, la popolazione si trova a dover subire anche le angherie delle milizie “spesso straniere che non hanno nulla a che vedere con le proteste del 2011”.
Alla fine dell’intervista, Asmae Dachan conclude: “Ogni storia che ho ascoltato si è marchiata a fuoco sulla mia pelle e continua a far male nel tempo. Non andranno nell’oblio gli sguardi dei bambini che ho conosciuto. Con le parole non posso fermare le bombe, ma spero di tenere vigile la mia coscienza e quella di chi mi legge. Voglio dare voce a chi non ha voce, perché non potrò mai dimenticare il mio viaggio.” 
(LINKIESTA)

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