Il degrado dell’esistenza per i civili in Siria...
di....Lorenzo Cremonesi..
In Siria la vita quotidiana per la popolazione è sempre peggiore. Un giovane reporter tedesco ha di recente pubblicato alcuni lunghi video sul dramma dei bambini di Aleppo. Vi si ritrova tra l’altro il fenomeno dell’abitudine alla guerra tra le nuove generazioni. La morte, la sofferenza, le bombe, i cecchini diventano inevitabilmente parte dell’esistente. E’ importante ribadire però che fu la repressione crudele e terribile del regime all’inizio delle rivolte due anni fa a scatenare la spirale della violenza. E ora non se na sa più come uscire.
Pubblico qui la terza puntata della serie di articoli sulla Siria apparsa nelle ultime settimane sul periodico “Sette”
Si fa presto a dire barbarie. “Un Paese precipitato nel Medioevo, impoverito e devastato dalle bombe”, lo leggiamo di continuo dai racconti che giungono dalla Siria costretta in ginocchio da due anni di guerra fratricida. Per capirne però concretamente il significato andiamo a vedere cosa è accaduto ai suoi abitanti. Tanti scappano. L’ultimo rapporto Onu ne segnala oltre un milione fuggiti in Turchia, Giordania e Libano. In realtà sono molti di più, almeno il doppio, semplicemente non sono registrati nei campi di accoglienza gestiti dalle organizzazioni internazionali. E ancora più numerosi sono quelli che restano nel Paese, gli anonimi “profughi interni”, che hanno abbandonato le loro case, si sono accampati magari a pochi chilometri, cambiato lavoro, si adattano a sopravvivere in una realtà che nell’arco di pochi mesi è stata totalmente stravolta. Ci sono momenti che a vederli cercare qualche cosa di valore nei cumuli di macerie, magari trascinando un carrello da supermercato arrugginito o un bidone di plastica sporca, ricordano la desolazione del libro di Cormac McCarthy, “La Strada”, dove la giornata diventa soltanto cruda lotta per la sopravvivenza e il trascorrere delle ore da mattina a sera si fa caduco, insicuro, cupo. Un universo in cui il denaro contante è sempre meno in circolazione, quasi nessuno percepisce più un salario regolare, il baratto tende a sostituirsi alle banconote. Beni che prima erano dati per scontati, garantiti, come l’acqua pulita e l’elettricità, diventano privilegi rari. E la notte è fagocitata dal buio, ostile, nemica come ai tempi dei lupi e dell’età pre-industriale, intercalata dai lampi delle esplosioni, il sibilo dei proiettili vaganti.
Sono le testimonianze della gente di Aleppo e dei villaggi della Siria settentrionale a raccontarci del primitivismo di ritorno in questo che da secoli è stato il cuore della civilizzazione araba. Abdul Jabbar, 29 anni, sino ad un anno e mezzo fa era insegnante di scuola elementare. Ma il suo istituto è stato chiuso, si trova nei quartieri di Aleppo presso Salahaddin controllati dalle brigate ribelli. “Il regime paga ancora i salari dei dipendenti pubblici che risiedono nelle zone in mano ai lealisti, anche se non lavorano più. Ne fa una questione di sovranità. Serve per ricordare che chi passa dalla parte della rivoluzione perde anche il salario”, racconta Nahel Gadri, che collabora talvolta con gli emissari locali di “Save the Children” e “Medici Senza Frontiere”. Così Abdul, che è sposato con due figli piccoli, si è messo a vendere i panini al sesamo, che sua moglie cucina ogni sera nel loro minuscolo appartamento con la farina distribuita in razioni dalle brigate ribelli che hanno il monopolio del traffico di merci con la Turchia. Si sono industriati. Acquistano la farina dalle razioni dei vicini. Lui esce ogni mattina, sulla vecchia bicicletta (non può più permettersi l’auto che arrugginisce in un vicolo), sul portapacchi posteriore ha montato un grande vassoio di metallo. E non torna a casa sino a quando non ha venduto tutto. Gli affari migliori li fa nella zona cosiddetta “del ponte”, presso il quartiere di Amria, un punto di passaggio obbligato, dove il traffico è costretto a rallentare per i cumuli di macerie e attorno gli abitanti hanno adattato le ex aiuole pubbliche a piccoli orticelli coltivati a verze, carote, patate, insalata, cavolfiori.
Non lontano da lui è posizionato un altro giovane uomo. Come tanti non vuole dire il nome. Racconta soltanto che prima faceva il meccanico. Lavorava nella zona industriale. Una volta la più ricca del Paese. “Ma la nostra officina è stata distrutta dalle bombe. Il proprietario è scappato in Turchia. Lui poteva permetterselo, aveva qualche risparmio. Io no e sono rimasto”, dice. Il prezzo della benzina varia di giorno in giorno, a seconda dell’intensità dei combattimenti e del conseguente volume di traffico. Lui la ottiene dalle brigate ribelli, che la distribuiscono a prezzi minori a chi la rivende con il proposito di creare una piccola rete di commerci locali che aiuti la popolazione a vivere. Ma il mercato è impazzito. Tre anni fa un Euro valeva 60 lire siriane, oggi oscilla a quota 135. Un litro di benzina è passato da 20 lire a una media di 130. Un chilo di carne costava 350 lire, ora nei villaggi è lievitato a 1.000, ma ad Aleppo costa il doppio a causa dell’impossibilità di surgelarla. Questi però sono beni di lusso. Il dramma sono i prezzi del cibo povero, quello che una volta garantiva comunque la sopravvivenza, e che tuttavia diventa irraggiungibile per i tanti che non hanno più nulla. Banche e uffici postali serrati, edifici pubblici abbandonati, economia paralizzata: come procurarsi contante? Un chilo di pane nel 2010 si acquistava per 15 lire, adesso varia tra le 100 e 200, a seconda che i combattimenti impediscano il transito o meno. Le patate, grazie agli “orti di guerra”, restano sulle 60 lire al chilo (ma prima ne costavano 10). Ciò che diventano davvero folli e imprevedibili sono le tariffe dei taxisti. Prima il loro era considerato un lavoro umile, mal pagato e inflazionato. Ora sono una casta di “nobili”. Si contano tra i pochi riusciti a salvare le loro vetture private e abbastanza coraggiosi da sfidare i proiettili nelle strade. Se cadono le bombe possono salvare la vita di intere famiglie. Ma ogni chilometro costa oro. C’è chi ha dato tutti i risparmi e i gioielli di famiglia pur di essere evacuato dai quartieri in fiamme. E’ sempre così nelle zone di guerra. In un mondo sempre più privo di comunicazioni, dove la mobilità e l’informazione assurgono a privilegio raro, i taxisti hanno il loro tam tam interno, si destreggiano con le mappe non scritte e continuamente mutevoli delle strade sicure, i nidi dei cecchini, i posti di blocco distratti, i punti dove è ancora possibile ottenere la linea per il cellulare; conoscono i negozi aperti, i rivenditori di benzina non annacquata.
Ciò che resta in piedi tra i capannoni della zona industriale è stato preso d’assalto dei profughi interni. Hamud Jdeaa, 45 anni, vi è scappato dal villaggio di Aweja, una trentina di chilometri più a nord. Prima aveva un negozio da ciabattino tra i vicoli medioevali del vecchio suk. Ma ora tutta la zona è distrutta, la sua bottega sepolta tra i detriti. Lui non si è perso d’animo. Dignitoso nella sua sciagura privata, parte integrante del grande dramma corale, ha appoggiato due assi di legno al muro di un capannone, vi ha inchiodato sopra un largo telo di plastica, che toglie e mette a seconda delle condizioni meteo. Appesi ci sono anche martello, pinza e forbici, e qui per poche lire continua a riparare le scarpe di clienti sempre più poveri, impossibilitati comunque a comprarne di nuove. Non lontano due liceali rimasti a casa si sono inventati di vendere tè alla menta per la strada. Fanno il paio con gli ex impiegati adesso improvvisati commercianti di arance e verdura che il venerdì affollano le vie presso le moschee e con le migliaia di negozianti, artigiani disoccupati convertiti in operai, venditori del nulla, cuochi popolari, universitari-meccanici.
La pauperizzazione collettiva e l’instabilità permanente, volute a bella posta dalla dittatura guidata dalla cosciente strategia militare della “terra bruciata”, per molti versi sortiscono gli effetti voluti. Ad Aleppo, tradizionalmente una delle città più fedeli al regime, a coloro che inorriditi dai bombardamenti si sono uniti alle brigate ribelli si aggiungono adesso i disillusi, gli arrabbiati, coloro che vorrebbero tornare allo status quo pre-rivoluzionario pur di riacquistare anche solo una minima parte del benessere perduto. In verità non è difficile cogliere un crescente malcontento nei confronti delle brigate rivoluzionarie. “Una volta stavamo bene. La città era sempre piena di turisti. Ora è solo distruzione e morte”, lamenta dalla sua botteguccia in una delle poche zone della città vecchia ancora relativamente in piedi un rivenditore del celebre “Sapone d’Aleppo”. Un commerciante, che tratta tra l’altro medicinali, saccarina e materiale sanitario, per telefono dal confine con la Turchia mi racconta di essere stato derubato per un valore di oltre 10.000 dollari. “Ci sono brigate che ormai chiedono il pizzo per farti passare. Certo, sono ancora poche. Ma la mafia esiste. La mia merce è stata sequestrata da un certo Mohamad Shaban, un ladrone, che ha preso tutto in nome della rivoluzione e poi lo ha rivenduto”, denuncia. Il pericolo è grave. Con il passare dei mesi la rivolta armata rischia di cadere nel banditismo, della guerra di tutti contro tutti. Il peggio potrebbe ancora venire.
( Blog Corriere della Sera )
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