Un popolo in fuga... la guerra continua


23 mesi sono passati dall’inizio della guerra in Siria. Un copione già visto negli atri paesi arabi. Una semplice manifestazione, l’intervento violento delle forze dell’ordine e viene creato il simbolo di una protesta di massa che in breve sfocia in una vera e propria guerra civile. La Siria non è la Libia, occupa una posizione strategica molto complessa, in un contesto geopolitico molto delicato. Assad funziona da bilancere tra mecccanismi culturali interni che escono dai confini del suo paese ed influenzao i rapporti con Trchia, Libano, Israele, Palestina, Giordania, Iraq e molti altri piu’ lontani. La Sira spaventa, impegnarsi in questo conflitto metterebbe a repentaglio difficili equilibri e per questo non siamo ancora pronti. Quello che piu’ soncerta in questo conflitto è senz’altro la mancanza di informazioni e la condizione dei civili. Si ha la netta sensazione che il popolo siriano inteso come popolazione sia utilizzato come pedine. 2.500.000 sono le persone che si sono spostate all’interno del paese a causa dei bombardamenti e degli scontri, 714.000 quelli che sono riusciti ad abbandonare il paese. Guardare la Siria dal lato umanitario dà una visione molto chiara dei meccanismi del conflitto. Ogni singola immagine che arriva urla al mondo realtà terribili e cambiamenti che stanno avvenendo ma dei quali non si parla o si parla troppo poco. Non è piu’ la guerra di bombardamenti, feriti e distruzione ma la guerra della gente.
Salwa è un’insegnate di Homs, professoressa di inglese. Oggi vive negli Emirati Arabi, è stata diverse volte minacciata di morte per il suo appoggio ai rivoluzionari e per essere entrata in contatto con gli organi di stampa stranieri. Spesso parlo con lei la sera e mi racconta le storie della sua famiglia, dei suoi cugini feriti, dei lutti. La gente cammina per la città con lo sguardo perso nel vuoto. Tutti hanno perso qualcuno, tutti cercano qualche cosa. Trascinano sacchetti e frugano tra le macerie sperando di ritrovare qualche frammento della loro vita passata, qualche ricordo, qualche briciola sepellita sotto le macerie delle loro case. Vivere è difficile se non impossibile. Nei quartieri assediati manca tutto e ci si affida ad un contrabbando che sfida i check point per raggiungere le zone isolate. Sepsso si rischia la vita. L’assedio dei quartieri a macchia di leopardo all’interno delle stessa città è la strategia politica che viene pronciâlmente utilizzata. Chiudere e ridurre alla fame le aree nelle quali si concentrano le forze dell’opposizione. Bombardamenti aerei, cecchini... nulla è stato risparmiato.
L’arrivo dell’inverno ha aggravato le cose. Sono spariti i colori e il grigio della desolazione ha ricoperto ogni cosa. Ci sono grossi contrasti tra zone diverse della stessa città. Quartieri tranquilli che sembrano oasi e zone distrutte, dove la guerra non ha risparmiato nulla. Fame, freddo, mancanza di medicinali, ospedali distrutti, scuole bombardate, quartieri residenziali ridotti a cumuli di macerie. Le città si svuotano, restano poche famiglie che vivono in condizioni molto difficili.
Non tutti partono, ci sono civili che restano sotto le bombe. Preferiscono morire a casa loro che affrontare la vita di rifugiati. Gli abitanti di Homs raccontano come non è sicuro vivere nei loro appartamenti e scendono nei garage o nelle cantine dove con un materasso e una stuoia sperano di sfuggire alle incursioni armati o alle bombe. Scendere nei piani bassi dà una possibilità in piu’ di salvarsi.
In molti quartieri manca l’acqua, la luce, le bombole del gas sono semplici ricordi di un benessere sparito, cancellato. I bambini non vedono frutta, verdura e carne da mesi. Si vive con molto poco, il pane è diventato un po’ il simbolo di questa guerra, spesso abbinato a scene di morte. Le associazioni umantiarie internazionali non entrano nel paese, gestiscono i campi nei paesi confinanti. Grandi campi con migliaia di rifugiati, Zaatari in Giordania, 15 campi in Turchia, Dominiz in Iraq, campi di fortuna in Libano e ancora rifugiati nelle scuole, nelle chiese, nelle moschee, nelle grotte, nei semi interrati.... Tutto il sistema siriano si è bloccato sopraffatto dalle regoole della guerra.
Non tutti i rifugiati riescono ad abbandonare il paese. Per tutti coloro che fuggono verso nord la prima tappa sono i campi di transito al confine con la Turchia. Iniziamo a conoscere i nomi delle frontiere, come quella di Bab Al Salam dove vivono a migliaia. C’è un paesino nella regione di Idlib che si chiama Atma. Era una piantagione di olivi sotto i quali nella stagione estiva avevano trovato rifugio alcuni civili. Oggi sono 14.000 e vivono in condizioni di enorme disagio. E’ un campo anomalo, una specie di comunità, nessun recinto solo tende che si aggiungono ad altre tende, cambia solo il loro colore, quelle piu’ bianche sono degli ultimi arrrivati. Ad Atma vivono 3800 bambini, non c’è acqua corrente, non c’è elettricità, non c’è un ospedale, c’è tanto freddo e tanto fango. Il campo è gestito da una piccola associazione che con grossi sacrifici riesce a fornire un pasto al giorno al meno per i bambini, di solito un po’ di riso o solo patate lesse.
Su questo campo ci siamo attivati insieme alla Onlus Auxilia e Sabastiano Nino Fezza cinereporter della RAI proprio pensando ai bambini. Il progetto ha tre punti fondamentali, portare abbigliamento e scarpe, sostenere la piccola scuola per permettere di continuare gli studi e supportare il piccolo ospedale del villaggio vicino con medicinali e strutture. Il convoglio partirà da Trieste e ha lo scopo di far conoscere la situazione dei civili che vivono in un paese in guerra e che troppo spesso vengono considerati “effeti collaterali”.

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