Mattatoio Siria, l’Onu ammette: saremo giudicati per questa tragedia


La carneficina in Siria è inarrestabile. Si stima che  i morti siano quasi 70mila. Il mondo continua a guardare senza muovere un dito.  Ormai la via diplomatica è una via morta. Le Nazioni Unite sembrano sempre più impotenti. Se ne rende perfettamente conto l’Alto Commissario dell’Onu per i diritti umani, Navi Pillay, che ieri ha pronunciato un duro intervento davanti al Consiglio di Sicurezza:

“La mancanza di consenso sulla Siria e l’inattività sono stati disastrosi e a pagarne il prezzo sono stati i civili di entrambe le parti. Saremo giudicati per la tragedia che si è manifestata davanti ai nostri occhi . A questo Consiglio come pure a quelli di noi che occupano ruoli chiave nelle Nazioni Unite sarà giustamente chiesto cosa abbiamo fatto”.

Parole di fuoco. L’ultima volta che Pillay era apparsa davanti al Consiglio un mese fa i morti erano 60mila: “Oggi – ha detto – quel numero è cresciuto raggiungendo quasi quota 70.000″. Ossia altre 10mila vittime in sei settimane. L’Alta Commissaria ha chiesto di nuovo che Assad sia deferito alla Corte Penale Internazionale. Il Paese “si sta autodistruggendo – ha aggiunto  il segretario Onu Ban Ki-moon – dopo due anni di conflitto non contiamo più i giorni in ore, ma in corpi. Un nuovo giorno, altri 100, 200, 300 morti”.

Succederà qualcosa? Probabilmente no. Sulla Siria ormai la comunità internazionale, come anche l’opinione pubblica, sembra quasi anestetizzata come lo era il 2 gennaio quando Pillay annunciò i 60mila morti. Sui giornali ormai la carneficina non è più una notizia, i lettori sono stanchi di leggere la cronaca di un conflitto sempre uguale e tutti preferiamo chiudere gli occhi di fronte all’orrore (nella foto sopra alcuni bambini in un campo profughi).

Ma se cominciassimo a conoscere una per una le storie delle persone coinvolte? Khetam Benyan, 20 anni, studentessa in legge, figlia di sunniti benestanti, ha passato 48 giorni in prigione per aver partecipato a una manifestazione a Damasco. Un mese fa è stata rilasciata ed ha lasciato il Paese ma le immagini di quello che ha visto in carcere continuano a toglierle il sonno: “Come potrò dimenticare quella gente e condurre una vita normale mentre loro sono ancora in una cella buia?” confessa al britannico The Times.

Era il 22 novembre quando, dopo la manifestazione,  Khetam fu picchiata dalle forze di sicurezza, interrogata per 12 ore e ripetutamente minacciata di essere stuprata. Dopodiché la ragazza venne gettata in una cella senza finestre dove rimase per sette settimane insieme a una dozzina di altre donne tra i 20 e i 50 anni. Lo spazio era così poco che si faceva a turno per dormire. Il cibo quasi inesistente:  due pasti al giorno da dividere con le altre. Ma la cosa più terribile erano le urla degli uomini torturati nella stanza accanto.

Ogni tanto le guardie entravano nella cella e portavano via una donna. Quando tornava era sempre devastata. Una di queste raccontò di essere stata stuprata perché confessasse i nomi dei capi dell’opposizione. Due settimane dopo la violentarono di nuovo. “Aveva perso interesse in qualsiasi cosa, non mangiava, si odiava – racconta Khetam-. Noi eravamo tutte terrorizzate, pensavamo che sarebbe potuto succede a ognuna di noi”. Un’altra detenuta, Muna al-Wadi, 26 anni, un giorno fu prelevata dalla cella alle 8 di mattina e quando ritornò era isterica: le avevano detto che il giorno dopo l’avrebbero giustiziata impiccandola o fucilandola. “Quella notte nessuna di noi dormì – spiega ancora Khetam -. Aspettavano nel terrore”. Due giorni dopo la donna fu portata via e non ritornò mai più.

Walla al-Kayel, 20 anni, fu portata fuori dalla cella in quattro occasioni e ogni volta al ritorno aveva profondi tagli sulla schiena e sulle braccia.  ”Era in agonia e non avevamo nulla da darle tranne qualche fazzolettino per pulirsi”.

Gli esempi potrebbero continuare. Khetam Benyan fu rilasciata il 9 gennaio quando il regime decide di liberare 2.100 detenuti politici in cambio di 48 iraniani catturati dai ribelli.  Qualche giorno dopo la ragazza fuggì in Libano. Le sue compagne di cella, però, sono ancora lì. E lei non riesce a dimenticarle. Cerchiamo di non farlo anche noi.

 (di Monica Ricci Sargentini)

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