Lesbo, l’isola che scoppia di migranti: “In fuga da Assad, arriveremo in tanti”...


Nonostante l’accordo con la Turchia la rotta balcanica è di nuovo aperta.

L’anno scorso a marzo c’erano stati 350 arrivi, quest’anno siamo a 1750. «La stragrande maggioranza dei nuovi profughi sono siriani da Afrin e dalla Ghouta», dice Medici senza Frontiere

Niccolo' Zancan
Mytilene (Lesbo)
In mezzo all’odore di fogna e carne cotta sulla brace, nell’andirivieni continuo di poliziotti, volontari e venditori di catini di plastica, alle 17,15 di mercoledì 16 aprile un’autoambulanza esce dal cancello militarizzato del campo per richiedenti asilo di Moria. Sulla lettiga c’è un ragazzo afghano di 24 anni, si chiama Ali Mohammad Koshe. Da tre giorni sta male. Respira a fatica. Tutti hanno chiesto aiuto per lui. Ma gli è stato risposto di stare calmi: non ha bisogno di niente. Deve solo bere un po’ d’acqua e riposare. Pensano che stia facendo scena, alle volte succede. Ma Ali Mohammad Koshe sta sempre peggio, crolla a terra. L’autoambulanza adesso si mette in viaggio verso l’ospedale di Mytilene, mentre dallo stesso cancello blindato entra un pullman con gli ultimi 58 migranti sbarcati sull’isola di Lesbo.

Mai così tanti
Sono in totale quasi 8 mila per 1800 posti ufficiali. Mai così tanti da quando, due anni fa, l’Unione europea ha firmato un accordo da 6 miliardi di euro con la Turchia per bloccare il flusso dei profughi da questa frontiera d’Europa. Ali Mohammad Koshe sta agonizzando lungo il tragitto, mentre dentro il campo non c’è più posto per i nuovi arrivati. Non c’è nella sezione chiusa con gabbie e filo spinato, quella di identificazione e registrazione. Neppure nel comparto «respingimenti». Ma non c’è posto nemmeno nelle terza sezione aperta, così come nelle tende e nelle baracche che si sono moltiplicate sulla collina a perdita d’occhio, con tetti di cartone e bagni di fortuna, dove dormono centinaia di bambini. Nemmeno nel vicino centro di accoglienza Kara Tape, quello per le famiglie, trovano un letto. «Ogni giorno arrivano nuove barche» spiega Luca Fontana il coordinatore di Medici Senza Frontiere, che qui sull’isola ha aperto una piccola clinica pediatrica davanti al campo di Moria. «L’anno scorso a marzo c’erano stati 350 arrivi, quest’anno siamo a 1750. Ad aprile la media è di 500 a settimana. Non è chiaro cosa stia accadendo in Turchia. Nessuno ha accesso a quel Paese. Ma quello che sappiamo è che la stragrande maggioranza dei nuovi profughi sono siriani da Afrin e Ghouta».

Anche nel resto della Grecia è così. Alla frontiera dell’Evros, dove si tratta di superare un fiume, i migranti arrivati a marzo sono stati 1658, nello stesso periodo dell’anno scorso erano stati 222. Sta succedendo qualcosa. «È la guerra» dice il professore siriano Jabar Al Kahater, 65 anni, partito da Deir el-Zor e ora arrivato davanti ai cancelli di Moria: «Se si esclude la città di Idlib, tutta la Siria è nelle mani del dittatore Assad. Io ringrazio il presidente degli Stati Uniti Donald Trump per l’intervento militare. Ma ormai è tardi. Dovevate fare di più e prima. Molti stanno fuggendo dalla Siria proprio adesso, altri arriveranno. La Grecia è un Paese povero, ma ci offre rifugio. Non è colpa dei greci se siamo in questa situazione».

 Il diritto all’asilo
Dentro il campo di Moria ci sono state proteste, incendi, botte, devastazioni. Tentativi di suicidio. Undici migranti sono stati arrestati nel mese di marzo. Il problema è che non ci sono più posti neppure nelle strutture della Grecia continentale. La burocrazia ha tempi lunghissimi e si scontra con le ragioni di chi arriva. Quasi tutti hanno diritto di asilo. Sono stati meno di 1000 i respingimenti nel corso di questi due anni. E i nuovi arrivati continuano a sommarsi ai 60 mila migranti rimasti intrappolati in Grecia dopo l’accordo che ha chiuso le frontiere. Proprio in questi giorni, una sentenza della Suprema Corte di Atene ha stabilito che d’ora in avanti i migranti avranno diritto di muoversi liberamente sul territorio greco. Non dovranno più essere confinati sulle isole dell’Egeo. Una decisone che contrasta con l’accordo dell’Ue con la Turchia.

Questo è solo ciò che si vede. L’altra sponda del mare è impraticabile. Il ministero dell’Interno turco aggiorna i dati. Fra il 13 il 15 aprile, 11 imbarcazioni sono state intercettate. Erano tutti gommoni carichi all’inverosimile. A bordo c’erano 587 migranti, 511 di loro erano siriani. Oggi i trafficanti vendono il viaggio a 300 dollari. Ti danno una camera d’aria gonfiata come salvagente. I gommoni non sono più Yamaha nuovi, ma zattere di fabbricazione artigianale. Anche 100 persone portate in mare con un motore fuoribordo da 30 cavalli. Tutti mettono in conto di dover fare diversi tentativi. «Io ci sono riuscito al quarto passaggio» dice Majd Alelewi, un ragazzo fuggito da Damasco. «I militati turchi ci bucano le barche, buttano via i giubbotti di salvataggio. L’ultima volta ci hanno portato dentro una caserma. Gli afghani li hanno tenuti lì dentro. A noi siriani, dopo una lunga attesa, hanno fatto segno di andare». E adesso, cosa farai? «Il mio sogno è arrivare in America».

Per la prima volta dall’accordo del 2016, i migranti in Grecia stanno per superare quelli arrivati in Italia: 7437 contro 7540 negli ultimi quattro mesi. La rotta balcanica non è mai stata completamente chiusa. Ma ora i profughi siriani stanno tentando con forza di riaprirla. Quello che trovano a Lesbo, alla frontiera Sud-Est d’Europa, è una situazione miserabile e fuori controllo.

Alle 8 di mattina del 17 aprile, dentro il campo di Moria arriva la notizia che Ali Mohammad Koshe è morto. Da fuori senti le urla e i pianti. Un gruppo di afgani, circa trecento persone con donne e bambini, decidono di andare a manifestare davanti al Comune di Mytilene. Sono 12 chilometri di strada, salite e discese. Stanno marciando, adesso. «Freedom, freedom!», scandiscono in coro. «No Moria!» urlano. Quando ormai è notte, sono ancora accampati nella piazza principale. Hanno montato piccole tende color argento davanti ai bar dei turisti. Prima di coricarsi, sollevano per l’ultima volta la stessa fotografia al cielo. «Koshe!», gridano tutti insieme in una preghiera rabbiosa. È il nome un ragazzo di 24 anni morto di trascuratezza...

(La Stampa Mondo)

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