A Tripoli con i migranti respinti dall’Europa fra torture, umiliazioni e fame...




Violenze dopo il salvataggio in mare, poi il trasferimento nei centri d’accoglienza: «I poliziotti ci portano via tutto. Ma ritenteremo il nostro viaggio»




TRIPOLI


Che fine fanno quelli che rimandiamo indietro, il popolo dei barconi che le motovedette libiche «salvano» prima che entrino nel nostro mare: quelli per cui inizia il vero viaggio, che è al di fuori di se stessi? I migranti che evaporano nel nostro limbo di disattenzione, che non sono per noi più migranti, un figliol prodigo senza la casa in cui ritornare? A quale destino li consegniamo, noi che abbiamo cessato di dare?  

Per questo sono venuto in Libia, a cercare una risposta. Il mestiere che faccio non è discutere se una politica è efficace o no, è semplicemente raccontare quali sono le conseguenze della politica sugli esseri umani. Alla fine di tutto, ogni volta, c’è sempre una scelta morale. Poi deciderete, ma dovete sapere qual è il prezzo che fate pagare. Non potrete dire: ignoravo tutto, credevo, mi avevano detto. Vi racconterò allora dove ho incontrato i migranti salvati. Se non mi credete, è facile verificare. I centri libici per i clandestini, dunque. È lì che ho sentito l’odore dei poveri. 

Sapete: non mi ha più lasciato il puzzo della miseria, si è attaccato ai vestiti, alla pelle, mi ha inseguito dopo che ne sono uscito. Ho gettato via i vestiti che indossavo, ed è rimasto lì, mi è entrato dentro. Mi insegue e mi perseguita. Cosa è l’odore dei poveri? È un misto di sudore sudiciume immondizia urina secrezioni catarri cibi guasti o di poco pregio vestiti usati e riusati senza lavarli; è il trasudare della paura e di una dolente pazienza di vivere. Forse il problema è che coloro che decidono il destino dei migranti l’odore dei poveri non lo hanno mai sentito, vengono, parlano con i ministri in belle sale refrigerate. I centri per l’immigrazione clandestina (che ironia in un Paese, la Libia, che per quaranta anni ha fatto svolgere tutti i lavori duri a milioni di clandestini schiavi) sono sigle e numeri. Sigle e numeri. Questi uomini e donne e ragazzi sono detenuti, prigionieri. Non possono uscire, non possono comunicare con le famiglie. Mi hanno chiesto: «Che reato ho commesso? Ho lavorato qui per anni, ho pagato dei libici per traversare il mare». Non ho saputo rispondere. 

Tripoli scorre veloce, le cuspidi dei minareti si alternano ai relitti in cemento armato della fallita Manhattan del Colonnello, simboli spenti delle sue follie, che innalzano al cielo niente più che grandi segni grigi. In fondo ai vicoli, prigioniere tra case slabbrate di otto piani, montagne di immondizia che nessuno raccoglie. L’odore della strada con il suo catrame ribollente. A tratti, isolato, sale dal mare il richiamo di una sirena, lontana, solitaria e come soffocata. File silenziose fino a notte attendono, inutilmente, di poter prelevare piccole somme ai distributori delle banche. Non c’è denaro, se non per alcuni. Una grande macchina ferma.  

Il centro è in una strada che i libici chiamano «la ferrovia» perché qui al tempo degli italiani passava il treno, la villa-palazzo di Balbo è a un passo. L’ho scelto apposta: credo sia una sorta di vetrina, il ministero dell’Interno la usa per mostrare i risultati dell’efficace caccia ai migranti. Ci portano i giornalisti e i controllori puntigliosi delle organizzazioni umanitarie del Nord Europa, principali donatori. Organizzano anche partite di calcetto tra i detenuti: «Se viene subito si gioca Marocco contro Kenya». In realtà erano migranti della Costa d’Avorio, ma, si sa, son tutti «negri» al di sotto del Sahara. 

Dentro sono in 1400 (lo spazio è per 400 persone), gli uomini da una parte le donne dall’altra, si parlano urlando attraverso le sbarre. In nove mesi 3149 rimpatriati a spese delle Nazioni Unite, 244 «a spese loro», 71 hanno ottenuto il diritto di asilo, 6715 sono stati distribuiti in altri centri. 

REUTERS
(Nei centri libici sono ospitate più persone rispetto alla loro capacità. In quello di Tariq al-Siqqa, a Tripoli, sono 1400 in uno spazio destinato a quattrocento)  

«Abbiamo perso tutto»  
La prima cosa che incontri è, gettato in un angolo, il mucchio degli stracci donati per rivestire i migranti. I guardiani frugano, mettono da parte le cose migliori, una camicia, giubbe militari. A fianco un vecchio camion frigorifero, sequestrato. Dentro hanno trovato dieci migranti morti durante la traversata del deserto, dal Sud. Poi c’è la gabbia, un cortile coperto da una tettoia metallica, a sinistra si aprono le porte di alcuni stanzoni, le celle. La prima impressione è quella di entrare in una serra umida e afosa, dal pavimento esala, insopportabile, un vapore caldo come il sudore dai pori di un animale. Non ci sono letti o brande, non ci sarebbe posto, solo stuoie sudice, lembi di plastica, pezzi di cartone. I corpi, la notte quando le porte di ferro sono chiuse da grossi lucchetti, si infilano l’uno accanto all’altro per poter restare sdraiati. Se cerchi di spostarti cammini su quella spazzatura umana. Centinaia di volti e di corpi seminudi per il calore si volgono verso di me, c’è come uno strano raccoglimento. Stivati l’uno accanto all’altro, stesi o seduti, i migranti: corrosi, stremati, spolpati, distorti, bolsi. Vedo braccia riverse, gambe abbandonate, non nel modo di chi riposa o dorme ma di chi stramazza a terra in seguito a una bastonatura, esanime. E visi, visi neri e chiari quasi tutti di giovani, su cui sono dipinte tutte le sfumature della estenuazione.  

Non sono ancora entrato e già mi chiudono in mezzo, dolcemente, come una mano. Ascolto voci, stordito dal caldo e dall’odore che azzanna, non sono parole, discorsi singoli, è un mormorio che sale dalla terra. Non sono uomini a parlare, è la disperazione, l’assenza di speranza. «Ci hanno portato via tutto, i poliziotti libici. Denaro, telefonini, vestiti. Non possiamo dire alle nostre famiglie dove siamo, che siamo ancora vivi». I guardiani assicurano che tutto è custodito con cura e sarà restituito al momento dell’espulsione. 

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Il sogno dell’Europa  
Qualcuno avanza, spinto dagli altri che fanno largo, a mostrare le piaghe: c’è un giovane che ha gambe e braccia come scorticate dalla carta vetro: la benzina, la benzina sulla nave. Un altro più maturo mostra la spalla: fuori posto, staccata dal corpo. A quelli rosi dalla febbre i compagni hanno lasciato gli spazi lungo i muri, perché possano appoggiare il busto alla parete. «Qui non ci bastonano più ma dove eravamo prima, nella prigione di Mitiga… Ah, lì come sapevano picchiare». 

È il problema di sempre: raccontare. È possibile trasmettere la memoria strutturandola? Il tempo di luoghi come questo è comunicabile in un altro tempo, il nostro? Ci sono occasioni in cui le parole sembrano aver perso peso, sono sacchi vuoti. Rispetto dell’uomo, rispetto dell’uomo! Questa forse è l’unica pietra di paragone. 

Un ragazzo marocchino è tra quelli che dovranno essere rimpatriati tra pochi giorni; sembra frantumi, le parole in sillabe con le mascelle. Mi spiega perché tutti ritorneranno in Libia a riprovare il viaggio, appena avranno raccolto di nuovo un po’ di denaro: «L’Europa dove vivi tu è la felicità, nei nostri Paesi viviamo per mangiare e non per avere un avvenire». Le nostre spiegazioni sulla migrazione: formule venute a finire qui come le vecchie auto arrugginite che solcano le strade di Tripoli. Soltanto un ragazzo della Guinea mi ha detto che non riproverà. È fradicio di stanchezza: «Basta, è inutile. Non ho famiglia, nessuno che mi attenda né in Guinea né in Europa. Raccontare perché rinuncio? Vengo da laggiù, sono qua, non ti basta?». 

Quando esco dalla prigione ho le tasche piene di bigliettini, pezzi di cartone su cui hanno scritto numeri di telefono delle loro famiglie: «Chiama, chiama, ti prego. Tu che puoi, dì loro che sono qui, che vengano ad aiutarmi, a tirarmi fuori». Ho provato a comporre alcuni numeri: risposte in lingue che non conosco o silenzi che affondano nel sospetto o nella disperazione. Con qualche padre o fratello ho parlato: cerco di instaurare con loro uno scambio, un rapporto umano. Mi piacerebbe dire di non perder fiducia, che i figli e i fratelli stanno bene e, alla fine, ce la faranno. Ma le parole non hanno lo stesso senso per loro e per te, ti chiedi se hanno il minimo senso davanti a questa sofferenza immensa e anonima. Sei tu che perdi fiducia, sei tu che perdi coraggio.  

La tragedia delle donne  
Mi sposto nella zona riservata alle donne: la situazione sembra migliore ma l’aria è rovente, grava il fiato di un fortore acido. Anche qui non ci sono materassi, solo stracci e stuoie. Accanto scola in una palude l’acqua che esce dalle latrine. Sono giovani ma parlano della vita come vecchie. Ho capito perché quando i poliziotti hanno tirato fuori da una borsa alcuni oggetti sequestrati: amuleti, fogli di carta con maledizioni rituali, bottiglie di plastica che contengono sangue mestruale. La magia nera per legare le migranti prostitute. E un quaderno in cui sono segnate, meticolosamente, le prestazioni di lavoro: 15 marzo dieci clienti, 16 marzo diciannove. E i prezzi: cinquanta centesimi di dinaro. Un euro vale nove dinari. 

Dalle finestre il sole disegna uno sbilenco rettangolo di luce sulla parete e illumina le scritte. I muri, i muri della sezione femminile parlano: minacce, invocazioni, amari pentimenti. La Nigeria è viva, vieni in Libia e vedrai, grande Paese grandi migranti. Sono quasi tutte nigeriane, molte incinte: due litigano per un pezzetto di legno che serve come spazzolino da denti, altre due si contendono una caramella.  
Un neonato nudo giace abbandonato sul pavimento, le braccia allargate, dorme. Al centro della stanza una donna è seduta a terra, le gambe aperte come per puntellarsi, le passano accanto, la urtano, lei non si muove. Prega, sì prega: un canto monotono per ringraziare dio che non l’ha abbandonata. Il sudiciume del luogo non riesce a coprire il risplendente e duro metallo di quelle parole. Sì, la Parola è davvero senza fine...

(La Stampa Mondo)

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