Dopo sei anni di guerra, la Siria è ancora il limbo dei rifugiati...





 

Responsabile Comunicazione Intersos


"There is no place like home", traduce Tarwha, la mia accompagnatrice e una delle operatrici più esperte della missione di Intersos in Giordania, mentre l'anziana donna seduta di fronte a noi sgrana ancora una volta il rosario della sua storia.
"Non c'è un posto come casa propria", dice Radie, il volto segnato da rughe profonde. E nelle sue parole più che rimpianto, c'è orgoglio, dignità, tenacia. Sei anni fa ha lasciato la Siria con tutta la famiglia. Donne e uomini, vecchi e bambini. Un esodo disordinato, precipitoso. Una fuga per la vita di fronte alla violenza di una guerra in cui tutti erano ormai diventati nemici, a cominciare, secondo Radie, dal temutissimo esercito governativo e dai gruppi armati fedeli al governo di Assad.
Da sei anni la sua casa è una tenda, piantata in un luogo senza nome tra i campi e le serre alla periferia di Irbid, nel nord della Giordania. Qui li chiamano Its, Informal Tented Settlements, insediamenti tendati informali. Ma potrebbero anche chiamarsi insediamenti invisibili. Perché per le autorità ufficialmente non esistono, non compaiono in nessuna statistica o censimento ufficiale. Eppure, a metterli insieme, comporrebbero una cittadina di alcune decine di migliaia di abitanti, diffusa in tutti i governatorati del centro e del nord del paese.
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Ali e i bambini del campo nella tenda che ogni giorno trasformano in scuola nella polvere
Stare attenti ai cani bradi e rabbiosi d'inverno, agli scorpioni d'estate. Questo inverno è piovuto poco, ma il freddo è stato intenso. Il vento continuo ha sradicato i teli dai paletti. In mezzo al campo, mucchi di sterpi raccolti per darsi calore che bruciano troppo in fretta. Dentro, stufe a diesel che avvelenano le notti, mentre il vento scuote i comignoli improvvisati impedendo il tiraggio. Una televisione accesa con l'energia elettrica rubata ai vicini tralicci, il lavoro quotidiano nei campi per pagarsi una terra dove stare.
Cosa vorresti per il tuo futuro? - chiedo a Radie. "Tornare a casa, non c'è un posto come casa propria". E nelle sue parole più che un desiderio, c'è un'affermazione d'identità, un'invocazione alle proprie radici. "In Siria eravamo gente semplice. Gente che ha smesso di studiare perché studiare serve ai padroni. Lavoravamo nella compravendita di capre. Ma una casa ce l'avevamo. Avevamo una casa". Oggi, pensare di tornare è impossibile, "Troppo pericolo". Paura di tutti: delle truppe governative come dei gruppi ribelli.
Mentre ascolto le parole di Radie e gioco con il nipotino di pochi mesi, scivolatomi silenziosamente tra le braccia, mi chiedo che senso possa avere per questa gente la parola futuro. Cosa significhi futuro per chi da sei anni e per chi sa ancora quanto vive in una tenda in un luogo che non ha nome, per chi ufficialmente non esiste.
Penso, sentendo ancora una volta quel sentimento di umana solidarietà che ti invade di fronte a storie come questa, che l'unico futuro possa risiedere in parole come resistenza, tenacia, dignità. La resistenza quotidiana segnata dalla lotta per la sussistenza, dal lavoro nei campi, unica fonte di guadagno legalmente ammessa. La dignità delle povere tende pulite, ospitali, dei cuscini sprimacciati, dell'ottimo tè e del servizio di bicchieri quasi nuovi.
La tenacia di giovani uomini come Alì, 22 anni, il figlio di Radie, che ogni pomeriggio, di ritorno dal lavoro, allestisce una piccola scuola in una delle tende, insegnando ai bambini del campo a leggere e contare, per non negargli per sempre l'opportunità di emanciparsi, di guadagnarsi una vita migliore.
Proprio per questo, ormai da tempo, nei programmi che noi di Intersos portiamo avanti insieme a queste persone, la pura assistenza ha lasciato il posto a percorsi condivisi: formazione e strumenti per le lezioni nelle scuole improvvisate nei campi, programmi per aiutare i bambini a entrare nelle scuole giordane e riprendere gli studi, spazi comunitari dove incontrarsi, dove trovare supporto psicologico per superare i traumi subiti e assistenza legale per avere i documenti indispensabili a chiedere il riconoscimento dei propri diritti.
"Tuona?" - chiedo, guardando con preoccupazione il cielo annuvolato. Poi mi vergogno della mia ingenuità. Quelli che ascolto non sono tuoni, ma il rombo ben più profondo delle esplosioni, a pochi chilometri di distanza, nei pressi del vicino confine. È il 15 marzo 2017, sesto anniversario dallo scoppio della guerra, e ancora si continua a combattere...
(L'Huffington Post)

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