Tra i migranti dimenticati di Belgrado: "Non è un posto per esseri umani"...






Mentre il mondo si prepara a celebrare la Giornata del migrante e del rifugiato, quei minori stranieri a cui il Papa ha deciso di dedicarla rischiano di morire di freddo in Serbia.

                                                  Tra i migranti dimenticati della Serbia - Foto di Alberta Aureli




di Eleonora Camilli

Sono partito da solo, mio fratello è a Parigi, vorrei raggiungerlo ma per ora è impossibile”. Stretto in una  lunga coperta grigia Bilal, sedici anni e uno sguardo da bambino, cerca di scaldarsi intorno al fuoco insieme ad altri ragazzi, poco più che adolescenti come lui. Partito dall’Afghanistan per arrivare in Francia si trova bloccato qui insieme ad altre 1700 persone, nel cuore di Belgrado. Gli hangar dietro la stazione degli autobus sono la sua casa, gli altri ragazzi che vengono da Pakistan, Iraq e Siria, la sua nuova famiglia, un angolo dell’ ampio stanzone, che condivide con 300 persone, la sua stanza. “Fa troppo freddo, ci servono più coperte, abbiamo solo il fuoco per scaldarci. Non basta, non ci basta”. Mentre il mondo si prepara a celebrare la Giornata del migrante e del rifugiato, il prossimo 15 gennaio, quei minori stranieri a cui il Papa ha deciso di dedicare la celebrazione quest’anno rischiano di morire di freddo in Serbia: che è ormai la loro ultima frontiera.


Nel paese, secondo i dati dell’Unhcr, ci sono in questo momento circa settemila persone bloccate sulla rotta dei Balcani: la maggior parte sono migranti in transito che vorrebbero raggiungere il Nord Europa. Circa duemila vivono negli stabili abbandonati della vecchia stazione ferroviaria della capitale serba. “Alcuni hanno fatto domanda d’asilo nel paese ma  gli è stata rifiutata, altri hanno documenti di espulsione, ma una volta arrivati qui non vogliono tornare indietro, altri ancora non sono mai stati registrati – spiega Andrea Contenta, di Medici senza frontiere Serbia -. Ci sono poi alcuni casi di persone che erano riuscite a passare il confine e sono state rimandate indietro, per la legge di Dublino, in Bulgaria. Ora sono tornati qui seguendo questo assurdo gioco dell’oca dei migranti”. L’operatore di Msf racconta il caso di alcuni profughi che per sei mesi sono stati ricoverati in Austria, per malattie croniche gravi e adesso sono di nuovo qui in Serbia: “si ammaleranno un’altra volta”, dice.


L’organizzazione ha allestito una clinica mobile nel vicino parco, dove visita quotidianamente i pazienti. Bloccati da mesi in questo grosso campo in cui non è possibile attraversare le frontiere, né uscire, né ricevere un’assistenza istituzionale, i transitanti di Belgrado rischiano, infatti, ogni giorno l’assideramento: le temperature ormai oscillano tra gli otto e i quindici gradi sotto lo zero. Il governo serbo, dal canto suo, sta cercando di convincere i transitanti ad andarsene da lì e non vede di buon occhio il lavoro di assistenza fatto dalle organizzazioni umanitarie. E così ad aiutare queste persone ci pensano i volontari, come è successo già in altre parti d’Europa: da Roma a Como fino a Idomeni e Calais. I ragazzi di Hot food Idomeni, gli stessi che avevano per mesi assicurato il pasto alle persone bloccate al confine con la Macedonia cucinano tutti i giorni una zuppa per quasi mille persone. La distribuiscono tutti i giorni intorno alle 13 ai migranti disposti in una lunga fila ordinata.


Dentro gli edifici il fumo nero e l’aria rarefatta consentono a malapena di tenere gli occhi aperti. Akim, che arriva dal Pakistan mi chiede di guardarmi intorno: da una parte ci sono dei vecchi mobili messi in circolo che delimitano lo spazio per la sua camera. Tutto intorno gruppi di ragazzi intorno a tanti piccoli fuochi, accesi per scaldare l’edificio. “Questo posto non è per esseri umani – dice – forse non è neanche per gli animali. Ma che possiamo fare? Io ho fatto troppa strada per arrivare qui, indietro non ci torno. Se mi portano in un centro mi rimandano nel mio paese. Non posso rischiare, preferisco aspettare, prima o poi si decideranno a riaprire queste frontiere”. Intorno a lui un gruppo di minori: “questi ragazzi non dovrebbero stare qui, ci sono centri dedicati – mi dice una volontaria – ma non riusciamo a convincerli ad andarci. Preferiscono stare in questa situazione che pensare di non riuscire a completare il viaggio”. Alcuni di loro hanno già tentato di passare la frontiera: via terra, pagando i trafficanti, oppure cercando di nascondersi sotto un camion. Ma pochissimi finora ci sono riusciti. Ora aspettano che la rotta dei Balcani riprenda il suo corso. Intanto il flusso di persone qui non si ferma. L’ultimo arrivato è un bambino di otto anni che viaggia insieme al fratello. Stanotte dormirà anche lui a meno quindici gradi sotto zero, nell’inferno di ghiaccio della città bianca.



(Globalist)

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