La nostra vita prigionieri dell’Isis...






Costretti a convertirsi, ad abiurare, a rinnegare la propria fede. Costretti a professarla di nascosto, questa fede, per sfuggire a torture ed esecuzioni. No, non stiamo parlando della trama del nuovo film di Martin Scorsese, che racconta la vicenda dei “cristiani nascosti”, nel Giappone del 1600, ma della tragica attualità delle persecuzioni dello Stato Islamico contro i cristiani dell’Iraq, nel 2017. Nelle aree ancora sotto controllo dell’Isis, i cristiani continuano ad essere torturati, uccisi, lapidati e sottoposti a brutalità di ogni sorta, in ragione della loro fede. Jandark Behnam Mansour Nassi e suo figlio Ismail, originari di Bartella, in Iraq, hanno sperimentato sulla propria pelle l’atrocità della persecuzione, in due anni di vita sotto le bandiere nere del Califfato a Mosul. Forzati a convertirsi all’Islam, torturati perché non conoscevano il Corano, spettatori di violenze ed esecuzioni sommarie. Jandark e suo figlio, che ora vivono in un campo profughi di Erbil, nel Kurdistan iracheno, hanno raccontato ad Aiuto alla Chiesa che Soffre, la fondazione di diritto pontificio che si occupa di aiutare i cristiani perseguitati nel mondo, i due anni trascorsi nella morsa del fondamentalismo islamico.

Il loro calvario inizia una mattina d’agosto, a Bartella, nella piana di Ninive. L’Isis è entrato in città ed è troppo tardi per scappare. Ismail e sua madre, rimasta vedova, cercano di lasciare in fretta e furia la propria casa, ma vengono presi dai jihadisti, catturati e condotti a Mosul, la roccaforte del Califfato in Iraq. “Non avevamo idea di dove fossimo e di cosa ci sarebbe capitato, eravamo tagliati fuori dal mondo”, racconta Jandark ad Aiuto alla Chiesa che Soffre. “Dopo poco tempo ci è stato concesso di tornare a Bartella, ma ad un check-point ci è stata imposta la conversione all’Islam”, spiega la donna. Lei e suo figlio, si rifiutano. I jihadisti, allora, iniziano a colpirli e buttano Ismail, che all’epoca aveva 14 anni, in prigione. È qui che al ragazzino impongono di nuovo di convertirsi all’Islam. “Un giorno hanno sparato ad uno sciita davanti a me”, racconta il ragazzo, “il terrorista mi ha detto: se non ti converti all’Islam, spareremo anche a te”. Da quel momento Ismail si converte formalmente all’Islam ma, come sua madre, continua a professare di nascosto la fede cristiana.

“Sono stata torturata perché non sapevo nulla del Corano”, racconta Jandark. Suo figlio, Ismail, racconta che i jihadisti hanno trafitto sua madre con degli aghi, perché non aveva studiato il Corano a sufficienza. “Sono stato colpito ogni volta che non ero capace di rispondere alle loro domande nel modo che loro volevano”, racconta il ragazzino. “Chiunque camminava per strada durante il venerdì di preghiera veniva pestato”, continua Ismail, che racconta di essere stato percosso anche perché aveva i “pantaloni troppo lunghi”, oppure quando un miliziano ha trovato la sua “collana con la croce”. Esecuzioni e violenze, racconta il ragazzo, sono la prassi a Mosul. Ismail ha visto con i suoi occhi un gruppo di “uomini vestiti d’arancio, tenuti sotto tiro da un gruppo di ragazzini dell’Isis”, ed ha assistito all’esecuzione degli ostaggi, compiuta dai ragazzi. “Ad una donna”, racconta ancora il ragazzo, “i terroristi avevano legato mani e piedi e le avevano disegnato un cerchio intorno: se fosse uscita dal cerchio le sarebbe stata risparmiata la vita, ma non poteva, perché era legata”. “Mentre i suoi genitori piangevano e imploravano perdono”, continua Ismail, “i jihadisti l’hanno lapidata a morte”.

“Sì, sono mortificato per essere stato costretto ad aderire all’Islam”, ha detto ad Aiuto alla Chiesa che Soffre, il ragazzo. L’orrore, per fortuna, è finito quando sono iniziati i bombardamenti su Mosul. “Subito dopo l’inizio dei raid aerei molti sono scappati”, racconta Ismail, “anche quelli dell’ISIS sono fuggiti, e hanno trascinato delle persone nel loro tragitto attraverso Mosul, compresi me e mia madre”. “Quando i terroristi sono diventati troppo impegnati nella battaglia ci hanno abbandonati”, continua. “Poi siamo arrivati al fronte, e i cecchini dell’Isis hanno cercato di spararci”, ha spiegato il ragazzo, “abbiamo cercato riparo in una casa e dopo ore di combattimenti io e mia madre siamo stati in grado di uscire, sventolando una bandiera bianca”. “I soldati dell’esercito di liberazione iracheno ci hanno dato il benvenuto”, racconta il ragazzino. “Eravamo liberi!”, dice Ismail. Che ora, assieme a sua madre, aspetta di tornare a casa sua, a Bartella, mentre assapora di nuovo il gusto della libertà, in un campo profughi ad Erbil...

(Gli Occhi della Guerra)

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