Trump e Bergoglio: l'America più a destra di sempre versus la Chiesa più a sinistra di sempre...







Due personalità esplosive: Bergoglio e Trump. Le più diverse, opposte che sia dato concepire, elette ad abitare nelle due “case bianche”, del Potomac e del Tevere. Costrette a coabitare in un pianeta che adesso, d’un tratto, appare piccolo per contenerli entrambi.
Due dimensioni oniriche, prima che politiche. Il Papa che sogna una Chiesa povera, per i più poveri, e il Presidente che disegna un paese ricco, guidato dal più ricco.
Due formidabili comunicatori, capaci di polarizzare l’universo mediatico in campi magnetici, che attraggono e respingono. Catalizzando passioni e dispensando emozioni. Primordiali o digitali che siano. Senza suscitare sentimenti intermedi. Senza vie di mezzo. Il Commander in Chief, emulo di Harrison Ford, e il vicario di Cristo, discepolo del Signore, The Lord.
Il vendicatore che minaccia, e avverte, i nemici dell’America e il pastore che abbraccia, converte gli avversari della Chiesa. Tutti e due alla ricerca dell’arca perduta: sul biblico crinale del monte Ararat, dove discese un dì la colomba di pace, salutando l’arcobaleno e porgendo al mondo un ramo d’ulivo. E lungo la sagoma dark, tendente al black, della Trump Tower, da cui ascendono venti di guerra, mentre i falchi si apprestano a spiccare il volo.
Due populismi a confronto diretto e politicamente scorretto, che fuoriesce dalla diplomacy e si trasforma in conflitto di classe, ungendosi di gesti sacrali e linguaggi dissacratori, come non era mai accaduto prima. Franciscus versus Donald. Il Pontefice dei descamisados e dei cartoneros contro il Presidente dei colletti bianchi e delle carte di credito: “Trump? non lo giudico. Mi interessa soltanto se fa soffrire i poveri”. A parole un appeasement interlocutorio. Di fatto un ultimatum perentorio, con il presagio escatologico dell’impeachment davanti a Dio.
Al dunque una ennesima, esponenziale, internazionale resa dei conti tra Nord e Sud. Il Papa “confederato”, che annuncia e profetizza una ONU paritaria, dove tutti gli stati sono uguali. E il Presidente newyorchese, che rilancia e teorizza il primato USA, pronto a spaccare il mondo come una mela. Una grande, immensa mela: “Make America great again”.
Il Tycoon presidenziale, avvezzo a occupare la ribalta e ad allargarsi, ballando con i lupi di Wall Street. E il Pontefice del tango, che avanza temerario negli spazi stretti, fra donne vescovo e dittatori machisti, alla stregua di una milonga di Buenos Aires.
Lo squalo di “Apprentice”, televisivo divoratore di concorrenti. E il pescatore di uomini, che corre a recuperare coloro che annaspano. L’istituzione che si disfa della mondanità, nella croce d’acciaio, ferrea di Francesco. E la mondanità che si fa istituzione, sotto la chioma d’oro, fluida di Donald Trump.
Un contrasto radicale, irriducibile che di più non si può. Una trama che nemmeno la penna eversiva e avvincente di Dan Brown o la regia creativa, sognante di Paolo Sorrentino avrebbero ardito propugnare. L’America più a destra di sempre versus la Chiesa più a sinistra di sempre.
Sullo sfondo questa volta non s’intravede pertanto alcun lieto fine. Nessun idillio imprevisto, improvviso tra i protagonisti. Nessun colpo di fulmine ma semmai solo fulmini, tout court.
La storia non replicherà insomma l’epilogo - apologo di Giovanni Paolo II e di Reagan, ossia del presidente inviso ai liberal eppure amato dal liberatore Wojtyla. Un amore a prima vista e un connubio fecondo, prolifico al punto da generare una intera flotta spaziale, una invincibile armata E’ solo questione di tempo. Ci sono due “Air Force One” che viaggiano in rotta di collisione inesorabile, dalle rive rivali dell’oceano, recando a bordo i due “fabbri” più famosi del globo: l’uomo con le chiavi del regno dei cieli e quello con la chiave dell’inferno nucleare.
di scudi stellari e legioni angeliche, satelliti e proseliti, disintegrando il muro di Berlino e piegando in ginocchio il gigante sovietico.
Se Ronald Reagan e Karol Wojtyla, con i propri trascorsi di attori, apparvero nel ruolo i più convincenti, abili a recitare persino la parte di un sodalizio segreto tra CIA e Vaticano - a metà tra realtà e finzione, convenienza e convinzione -, anche i successori, dal canto loro, hanno contribuito ad arricchire originalmente la galleria delle coppie celebri, delle congiunzioni astrali e alleanze congiunturali tra i leader di turno delle due superpotenze, spirituale e temporale.
In una sintesi giornalistica, diremmo che Wojtyla - Reagan e Ratzinger - Bush hanno combattuto due guerre “esterne”, politica e culturale, contro i nemici del comunismo e del relativismo. Bergoglio e Obama si sono invece impegnati, pugnaci, nella battaglia “interna” per allargare le basi delle rispettive comunità, della Chiesa e degli USA, rendendole più “inclusive”, parola chiave dei loro discorsi.
Obiettivo che adesso, nella prima intervista di Donald Trump, si ribalta nel suo opposto, assoluto, e si cimenta (e cementa) nell’intento, risoluto, di espellere tre milioni di clandestini ed elevare un muro di tremila chilometri sulla frontiera del Rio Grande.
Motivo per cui a febbraio il Papa gesuita, memore e portatore, nel DNA, dell’eredità militare di Sant’Ignazio, aveva tentato il blitz e bombardato a terra l’avversario, provando a impedirne il decollo elettorale, sulla pista della corsa per la nomination: “Chi pensa soltanto a costruire muri non può dirsi cristiano”, esternò a bruciapelo ai cronisti. Un missile aria - terra sparato dall’alto dell’Air Force One papale, dove “One”, riferito al velivolo, indica quella che ormai è divenuta la fonte principale del magistero. Luogo di talk-show e talvolta di show-down, di conferenze e “annunciazioni” che si iscrivono nella tavola dell’immaginario collettivo e riscrivono le regole della Chiesa.
In ogni modo, la bomba “bunker - buster” di Bergoglio non ha divelto le intenzioni di voto dei conservatori. Come se l’America profonda percepisse frustrata, indignata uno strappo e reagisse al riposizionamento geopolitico della Sede Apostolica: in atto da Settentrione a Meridione, a sostegno dell’anticapitalismo terzomondista. E da Ovest a Est, in direzione di Mosca e di Pechino.
Una barriera invisibile, psicologica, che ha consentito a Trump di schivare il colpo, di strumentalizzarlo e rimbalzarlo al mittente. Gridando al tradimento e accusando Francesco di agire da quinta colonna del Messico, anziché da colonna di luce del popolo dell’esodo. Paradossalmente, ci voleva un pontefice (sud)americano, per marcare il massimo di distanza del Vaticano dall’America.
Il contrasto, messo così, non riveste unicamente, tradizionalmente natura ideologica, come sarebbe accaduto con Hillary Clinton e i Democrats, ma statura teologica: e investe direttamente la destra repubblicana e il suo retroterra, evangelico e fondamentalista, prefigurando uno scisma d’Occidente tra due cristianesimi, mentre il Papa esplora e compone faticosamente le fratture a Oriente. Un salto temporale che sposta di anni luce il quadro dei rapporti tra Roma e Washington, tra il Grand Old Party e il Colle Vaticano, per proiettarlo in un’altra dimensione, rispetto all’epoca d’oro di Reagan e Bush, di Wojtyla e Ratzinger. Una galassia dove ad affrontarsi non sono più due aerei, ma due astronavi. Rivisitando, mille anni dopo, il classico intramontabile delle lotte tra papato e impero, messe in orbita e assurte al rango di guerre stellari...
(L'Huffington Post)

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