Amira, schiava 17enne: «Ti sciolgono i capelli, poi pagano ed è finita»...




Parla una ragazza yazida sfuggita all’Isis In ostaggio a Mosul anche 100 bambini

di Lorenzo Cremonesi



DOHUQ (Iraq settentrionale) - «Gli uomini arrivano a ogni ora, notte e giorno. Talvolta soli, oppure in due o tre. Ogni volta i nostri guardiani ordinano a tutte le ragazze di scendere nella sala a piano terra. È un locale molto ampio, lussuoso, con poltrone, tappeti e tante lampade. Alcuni uomini impiegano poco tempo a scegliere. Meno di cinque minuti. Altri anche due ore. Stanno nella sala, chiacchierano, ogni tanto tornano a guardarci. Noi restiamo sedute in attesa. Quasi tutti ci prendono per la testa, ci costringono a guardarli negli occhi, vogliono che sciogliamo i capelli. Poi ci fanno girare per guardare anche da dietro. Non possiamo coprirci. I nostri carcerieri ci hanno preso gli scialli e i veli perché qualcuna ha provato a usarli per impiccarsi. Quando scelgono una donna la prendono per la mano. Quasi tutte gridano, implorano di restare, di essere uccise piuttosto. Non c’è troppa violenza, due guardiani spintonano quelle che resistono di più, le scortano alla porta. Loro piangono, quasi sempre piangono... Poi è finita. Tutte quelle che sono state prese non sono più tornate. Dicono che alcune sono state portate in Siria, date in spose ai guerriglieri. Ma io non so. So solo che non sono tutti guerriglieri quelli che vengono a prenderci. Alcuni ci vogliono come seconde o terze mogli. Ci sono uomini vecchi, con i denti gialli. Mi fanno schifo. Ho visto uomini di oltre sessant’anni prendere ragazze di diciassette. Non so quanto pagano, non so neppure se pagano. Io penso che ci comprino, perché me lo hanno detto qui a Dohuq, dopo che sono scappata. Ma quando ero prigioniera non sapevo che ci vendessero. L’unica cosa che ci dicevano tutto il tempo era che dovevamo convertirci all’Islam. Che era una cosa giusta, naturale. Se lo avessimo fatto spontaneamente, tutto sarebbe stato più facile per noi. Saremmo diventate spose di arabi musulmani e state benissimo».

Così parla Amira, 17 anni, del clan yazidi dei Mahlo, originaria del villaggio di Qatania e per 20 giorni ridotta alla condizione di schiava dello Stato Islamico in Iraq. La chiamiamo Amira perché dice che il suo nome comincia per A, ma quello vero non lo rivela. Rifiuta di essere fotografata. «Ho paura per le oltre 50 donne delle nostre famiglie rimaste con i persecutori. Devono essere furiosi per la mia fuga, se ora scoprono che parlo ai giornalisti potrebbero prendersela con loro». La sua è una testimonianza diretta sul Califfato. Una delle tante sugli orrori che si stanno consumando contro i non sunniti per mano dei jihadisti. Ieri i media curdi segnalavano un centinaio di bambini (sembra 45 yazidi e una cinquantina sciiti) tenuti in ostaggio a Mosul nell’orfanotrofio di Dar al-Baraim. Alcuni sarebbero stati presi nella cittadina di Tal Afar in giugno, altri da quella di Shingal ai primi di agosto. Amira conferma la presenza dei bambini-ostaggio. «Ho visto che nel commissariato di Tal Afar e poi a Mosul venivano selezionati e portati via i bambini. Tutti quelli sopra ai sette anni venivano separati dalle madri», spiega.
L’abbiamo intervistata per tre ore due giorni fa nella scuola superiore «Braiati» (Fratellanza) nel centro di Dohuq trasformata temporaneamente in centro di raccolta per le centinaia di migliaia di yazidi fuggiti nelle regioni curde. È stato possibile raggiungerla grazie all’aiuto del cugino Dakhill Mahlo, il 24enne che avevamo incontrato per caso tra i profughi scappati dalla montagna di Sinjar ormai oltre tre settimane fa e che aveva raccontato disperato della giovane moglie Bushra presa la notte tra il tre e quattro agosto con 106 altri familiari. Tra loro c’era anche Amira. Il suo racconto inizia dunque dove finisce quello di Dakhill. «Ci hanno caricati sulle auto e portati al villaggio di Sibae. Ci hanno derubato di tutto.

Continuavano a gridare che dovevamo convertirci. Gli uomini sono stati separati subito, oltre quaranta. Penso li abbiano uccisi poco dopo attorno al villaggio. Noi donne siamo state portate alla cittadina di Sinjar e chiuse nella stazione di polizia. Qui c’erano tantissime altre donne, forse 800 ed è avvenuta una prima selezione. Soprattutto separavano le vergini dalle sposate, solo i bambini molto piccoli potevano stare con le mamme». Dopo 24 ore è spostata per due giorni a Tal Afar. Quindi sta quattro o cinque giorni a Badush, la prigione di Mosul. «Nel carcere eravamo forse 1.500. Nella mia cella ne ho contate sino a 150. È stato allora che alcune sono state portate via una per una. Ma la nostra condizione di schiave da vendere è diventata evidente nella casa lussuosa a Mosul. All’inizio eravamo circa 200 tra donne e ragazze giovani. Almeno la metà è stata venduta nelle prime 24 ore. Poi ci sono stata per almeno una settimana. Le nostre guardie sembravano un gruppo speciale: tutti turcomanni sunniti iracheni. Non ho visto stranieri. Hanno portato una dottoressa a visitarci. È stata l’unica donna che ho visto con loro. Ha effettuato un controllo ginecologico, più accurato alle incinte e le sposate». Lei è stata violentata? Amira nega. Ma se pure fosse avvenuto, non lo ammetterebbe mai. Infine la fuga verso le linee dei curdi siriani. «È stato il 24 agosto. Con altre due donne ci avevano portato al villaggio di Rabiah, a pochi chilometri dal confine. C’è stato un bombardamento. Il caos, scoppi, paura. Le nostre guardie dicevano che erano i caccia americani. Nel panico non hanno chiuso la porta del capannone dove stavamo. Così siamo scappate verso il deserto. Abbiamo incontrato un pastore, che ci ha accompagnato dai curdi. Gli dobbiamo la vita». 
(Corriere della Sera)

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