Tra le scrivanie vuote dei reporter messicani ammazzati dai narcos...




Nella redazione de “La Jornada” che piange i suoi cronisti: “Possiamo solo seguire il loro esempio e fare inchieste”

Una gigantografia di Javier Valzez, uno dei più noti giornalisti d’inchiesta messicani, ucciso dai narcos il 15 maggio



CITTÀ DEL MESSICO


Nella sede de «La Jornada», all’ingresso, c’è un altarino con i ritratti dei due giornalisti del quotidiano uccisi negli ultimi mesi. Miroslava Breach è stata assassinata a Ciudad Juarez, Chihuahua, feudo dei narcos al confine con il Texas. Javier Valdez è stato ammazzato esattamente un mese fa a Culiacan, capitale dello stato di Sinaloa, territorio del Cartello guidato dal Chapo Guzman, estradato negli Stati Uniti, ma ancora potentissimo. A «La Jornada» non amano parlare dei colleghi scomparsi, ma questa volta fanno un eccezione perché, come spiega il caporedattore Rolando Medrano, si sente il bisogno di denunciare a livello internazionale quello che sta succedendo in Messico. «Miroslava e Javier non erano due giovani colleghi inesperti, sapevano benissimo i rischi che correvano. Avevano deciso di non fermarsi perché ritenevano la loro più che una professione, una missione. Da anni seguivano i movimenti della criminalità organizzata, le faide interne, le relazioni con il potere politico, le complicità del mondo imprenditoriale. Erano convinti che fosse necessario raccontare quello che stava succedendo». Rolando si commuove a ricordarli, in tutta la redazione c’è ancora tantissimo dolore ma nessuno, qui, vuole parlare di eroismo, di martiri.  

Dall’inizio dell’anno sono sei i cronisti messicani uccisi, più di cento negli ultimi 15 anni. «Oggi possiamo solo seguire il loro esempio, non possiamo smettere di pubblicare inchieste, reportage, di seguire i fatti; allo stesso tempo, però, dobbiamo pensare come proteggere i nostri cronisti e inviati. Sarebbe terribile piangere altre morti».  


A Città del Messico si rifugiano oggi i giornalisti che scappano dalle zone più pericolose, scompaiono per un po’ per salvare se stessi e le loro famiglie. Uno di loro è Martin Duran, che lavorava sulle stesse storie di Valdez. A Culiacan ha fondato il giornale online «La Pared», che pubblicava inchieste sul mondo dei narcos. Nel 2016 il debutto in edicola. «Una scelta controcorrente, che caratterizzava il nostro stile. Volevamo arrivare ad un pubblico più amplio possibile, in prima pagina mettevamo le storie più forti». Raccontano la frattura all’interno del Cartello dopo l’estradizione del Chapo Guzman. I narcos iniziano a farsi sentire, prima con avvertimenti, poi con minacce concrete. Nel febbraio scorso Damaso Lopez Nunez, erede e rivale del Chapo contatta Valdez e lo stesso Duran che lo intervistano ognuno per la propria rivista. La cosa non piace ai figli di Guzman, che ritirano tutti gli esemplari de «La Pared» dalle edicole. Due mesi dopo Valdez viene assassinato in pieno giorno nel centro della città. Martin capisce che è meglio andarsene. «Pensavo che Javier fosse intoccabile perché era un giornalista molto conosciuto e rispettato. Per la nostra generazione era un esempio, un onore poter lavorare a fianco suo. La sua morte ci ha fatto capire che non c’era più spazio per noi».  

Martin vorrebbe continuare a fare giornalismo, ma sa benissimo che non può più occuparsi dei narcos di Sinaloa. Per ora riceve, come altri, l’aiuto di Rsf (Reporters sans frontiere); dodici cronisti messicani sono attualmente rifugiati negli Stati Uniti, due sono in Spagna. Molti altri sono a Città del Messico o nascosti in altri Stati. «Il governo federale offre un programma di protezione con scorta e appoggio dell’esercito, ma di tratta - spiega la rappresentante di Rsf Balbina Flores - di un meccanismo ancora molto debole. Non ci sono le risorse sufficienti per appoggiare tutti quelli che chiedono aiuto».  

L’unico punto positivo in tutto questa storia è la solidarietà dei colleghi. Dalla morte di Valdez non c’è giorno che passi in Messico senza una manifestazione di ripudio alla violenza e in difesa alla libertà di stampa, con un’ampia eco internazionale. Alla Ong «Red de Periodistas» offrono corsi di aggiornamento professionale per reporter in situazione di rischio, spiegando loro come trattare temi caldi proteggendo se stessi e il proprio lavoro. «Una chiave – spiega la coordinatrice Daniela Pastrana – è condividere le informazioni con colleghi di cui ci si fidi. Avvisare dei propri spostamenti, annotare le anomalie, da una persona che ti segue per strada, alle telefonate anonime, ai testimoni che all’ultimo momento decidono di non parlare. Sono dettagli che ti possono salvare la vita». Ne sa qualcosa Luis Cardona, giornalista di Ciudad Juarez che nel 2012 è stato catturato da una banda armata, mentre stava realizzando un’inchiesta su una serie di 15 sequestri di giovani avvenuta in pochi giorni nella sua città. Lo hanno picchiato e torturato per diverse ore facendogli credere che lo avrebbero ucciso. All’ultimo momento lo hanno graziato.  

Ha raccontato la sua storia in un cartone animato di dieci minuti intitolato «Il sequestro numero 16», che ha vinto diversi premi internazionali. Dopo tre anni di esilio è tornato a Juarez, usufruendo del programma speciale di protezione del governo. Ha un piccolo telecomando che porta sempre con sé; schiacciando Sos l’esercito arriva sul posto nel giro di 15 minuti. «Molta gente - spiega - mi chiede perché sono tornato, perché continuo mettere a rischio la mia vita. Non lo faccio per sentirmi un eroe, odio questa definizione. Per me si tratta dell’unica scelta possibile. Mi sono separato, vedo i miei figli solo in circostanze speciali, la mia vita è già stata svuotata. Il giornalismo è l’unica cosa che mi rimane: se mi togliessero anche questo sarei morto per davvero».  



(La Stampa Mondo)

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