Morire sotto bombe autoctone o straniere?...





dal blog di ASMAE DACHAN

“Aviazione nazionale o americana?” si chiedono due bambini in fuga alla vista di un aereo intento a bombardare, disegnati dalla penna del vignettista palestinese Hani Abbas. Una domanda che rimbalza tra i civili di diverse città del nord est della Siria che, oltre all’aviazione del regime, ora vedono sorvolare le loro case anche dai mezzi della Coalizione che dovrebbero contrastare l’avanzata di Isis. Ma intanto Isis continua a procedere e a commettere abomini. La dura battaglia a Kobane, città siriana al confine con la Turchia, è un esempio emblematico della violenza e della forza dei mercenari dalla bandiera nera che stanno annientando la resistenza locale. Nella zona al confine tra Siria, Turchia e Iraq si combatte via terra e si bombarda anche dal cielo e mentre la politica internazionale sta giocando su nuove alleanze e strategie, la situazione dei civili si fa sempre più drammatica.
Milioni di persone inermi si trovano vittime di una violenza atroce che non accenna a placarsi; sembra che la macchina della morte sia più efficiente e funzionante di quella della diplomazia, ferma ormai da anni. Vale per l’Iraq e vale per la Siria, dove il bilancio dei morti dal 2011, secondo i dati dell’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, ha superato i 200mila. Per loro nessuna soluzione negoziale, solo bombe e armi che si uniscono ad altre bombe e armi.
Paesi martoriati dalle violenze e da guerre che, pur spacciati per conflitti ideologici (esportazione della democrazia, invasione islamica e altri obbrobri), altro non sono che lotte per il potere e il controllo del territorio. Un territorio strategico, ricco e per questo oggetto di interessi contrastanti.
Con le sue bombe il regime di Bashar Al Assad sta continuando indisturbato a distruggere quartieri residenziali mietendo vittime, feriti, profughi. Nessuno ha prevenuto o contrastato l’avanzata dei terroristi di Isis e ora si è aperto un nuovo fronte di bombardamenti, che da buona parte dei civili siriani non è visto come “liberatorio” o “amico”, ma come un’ulteriore causa di morte. I siriani non vogliono Assad, né Isis, né improbabili alleanze straniere che alimentano la macchina della morte. Dopo quarantatre mesi di violenze, vorrebbero solo la cessazione di ogni violenza.
Tre giorni fa a Homs pioveva e alcuni attivisti hanno postato le loro foto sotto l’acqua, dicendo che è l’unica cosa buona che cade dal cielo. La vignetta di Abbas rappresenta bene il sentire dei siriani. Ormai si chiedono solo da dove arriveranno le bombe che li uccideranno: saranno gettate dai loro connazionali, o da militari stranieri? “Se possiamo decidere di che morte morire” – dice un proverbio siriano – “forse è più dignitoso che ad ucciderti sia un estraneo. Morire ammazzati fa male, ma se ad ucciderti è tuo fratello, fa ancora più male”. La resistenza siriana anti Assad e anti Isis non si arrende e ad Aleppo sta conducendo una battaglia metro per metro. “Non smetteremo di lottare per la nostra libertà e dignità, anche se di noi non rimarrà più nessuno”.
Intanto ottobre avanza e si avvicina l’inverno. Il quarto che oltre 9 milioni di sfollati e 3 milioni di profughi passeranno nelle tende o in rifugi precari, spesso fatiscenti. Il quarto in cui più di 3 milioni di bambini non potranno andare a scuola. Ma questo ai lanciatori di bombe e ai taglia gola non interessa.

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