Infuria la guerra tra le milizie, la Libia verso uno scenario somalo...
Mentre il Parlamento elegge il suo presidente in un hotel militarizzato a 1.500 chilometri dalla capitale, manca l'energia elettrica, diverse fazioni si contendono il controllo di Tripoli e le ambasciate chiudono, con l'eccezione di quella italiana. Il Paese è nel caos, tra emirati islamisti, ufficiali controversi e signorotti locali. E i profughi subsahariani sono quelli che pagano il prezzo più alto
di STEFANO PASTAMercoledì mattina i cittadini libici si sono svegliati con un blackout totale. A Tripoli, già nei giorni scorsi a tratti erano mancati internet, la rete dei cellulari e l'acqua, per il malfunzionamento dell'acquedotto. Problemi anche alla sanità da quando, il primo agosto, il governo di Manila ha chiesto ai 13mila filippini presenti in Libia di lasciare il Paese, dove 3000 di loro lavorano come infermieri e medici. Nel frattempo, lunedì sera, i deputati eletti lo scorso 25 giugno hanno votato il giurista Aguila Salah Iss come nuovo presidente del Parlamento. Hanno partecipato 160 componenti dell'assemblea su 188, con il boicottaggio di quelli vicini ai Fratelli Musulmani, che, a differenza del precedente Parlamento, risultano ora in netta minoranza. Poco dopo la votazione, sono arrivate due dichiarazioni che non fanno ben sperare: il Gran Mufti al-Ghariani e il presidente uscente Abu Sahmain, sostenuto dagli islamisti, hanno detto che ritengono incostituzionale la nuova Assemblea.
Il Parlamento a 1500 chilometri dalla capitale. L'elezione di Salah è avvenuta in un hotel militarizzato di Tobruk, all'estremo est, quasi al confine con l'Egitto. Perché non a Tripoli, sede naturale, o a Bengasi, seconda città della Libia? Entrambe sono sotto il controllo di gruppi armati che si fanno la guerra tra di loro in uno scenario che ad alcuni analisti inizia a ricordare quello somalo. Per questo, gli Stati Uniti e quasi tutti i Paesi europei hanno rimpatriato i propri connazionali ed evacuato le proprie rappresentanze, con l'eccezione dell'ambasciata italiana che rimane aperta. Continuano a sorgere fazioni e milizie armate che si scontrano e si riuniscono in alleanze che cambiano velocemente. E il contrasto tra formazioni più o meno islamiste e conservatori nazionalisti non basta a spiegare le divisioni, contano anche i fattori territoriali. Si scontrano non solo la Tripolitania e la Cirenaica, ma anche il Fezzan, l'area desertica abitata da tuareg e tebu, con le altre due province. Soprattutto, ci sono le lotte tra clan locali e poteri nazionali per le risorse petrolifere e i traffici privati dei capi.
Come ci siamo arrivati? Dopo la caduta di Moammar Gheddafi tre estati fa, i vari governi che si sono succeduti non sono riusciti a imporsi sui circa 140 gruppi tribali che compongono la Libia. Il 16 maggio, quando la situazione appariva sempre più caotica, Khalifa Haftar, controverso generale dell'esercito, a capo della brigata Al Saiqa ha lanciato l'Operazione Dignità contro le forze islamiste, particolarmente forti nella Cirenaica, la regione di Bengasi. Due giorni dopo, soldati fedeli al generale hanno attaccato il Parlamento di Tripoli e lo stesso Haftar ha provato a sospenderne i lavori, accusando gli ultimi due primi ministri, al-Thani e Maiteeq, di essere troppo vicini agli islamisti. Un'occasione in più per le varie fazioni dell'esercito per dividersi e schierarsi pro o contro il generale.
Il vuoto di potere a Tripoli e l'emirato islamico a Bengasi. Oggi a Tripoli nessuno comanda, mentre si scontrano principalmente due gruppi: la milizia di Zintan, una città del nordovest, e un gruppo armato nato dall'alleanza delle milizie di Misurata e di alcuni gruppi islamisti. Dal 13 luglio, gli scontri, con oltre 100 morti, si concentrano attorno all'aeroporto, controllato dai primi e bombardato dai secondi. La scorsa settimana, per vari giorni la capitale è stata coperta dal fumo di un deposito di carburante, colpito da alcuni razzi (foto); da qui arriva parte del petrolio importato in Italia con il gasdotto Greenstream, che copre il 10-11% dei consumi nazionali. A Bengasi, invece, le milizie islamiste sostengono di aver preso il controllo della città, un tempo "capitale" degli insorti contro Ghedaffi, mentre al generale Haftar rimarrebbe solo l'aeroporto. Intanto, i gruppi jihadisti, riuniti nel Consiglio della Shura dei rivoluzionari di Bengasi, hanno proclamato un emirato islamico. Tra di loro, ci sono anche i salafiti di Ansar al Sharia, accusati dell'attacco dell'11 settembre 2012 contro il consolato statunitense durante il quale morì l'ambasciatore americano Chris Stevens.
L'allarme dell'Unhcr. L'Alto commissariato Onu per i rifiugati, che ha lasciato Tripoli a causa degli scontri, segnala che circa 30mila persone hanno passato il confine con la Tunisia la scorsa settimana, mentre ogni giorno 3.000 uomini attraversano la frontiera con l'Egitto; sono soprattutto egiziani che lavoravano in Libia, ma anche libici che possono permettersi la fuga. Tuttavia, la condizione peggiore è quella dei rifugiati provenienti dall'Africa subsahariana. "Sono quasi 37mila - spiega l'agenzia Onu - le persone che abbiamo registrato; nella sola Tripoli, più di 150 persone provenienti da Eritrea e Somalia hanno chiamato il nostro numero verde per richiedere medicinali o un luogo più sicuro dove stare. Stiamo anche ricevendo chiamate da molti siriani e palestinesi che si trovano a Bengasi e che hanno un disperato bisogno di assistenza".
La pelle nera paga pegno. Una situazione drammatica confermata da don Mussie Zerai, un sacerdote eritreo che con l'associazione Habeshia si occupa di chi scappa dal Corno d'Africa: "Mi chiamano quasi ogni ora: poco fa una madre etiope, chiusa in casa a Tripoli con due bambini, mi diceva che non ha da mangiare e non sa cosa fare. Uomini armati delle varie milizie entrano nelle abitazioni dove sono nascosti i profughi, rubano tutto, uccidono senza motivo, solo perché si trovano di fronte dei neri. I maschi vengono rapiti per essere impiegati come facchini negli spostamenti, mentre le donne subiscono stupri". Anche nelle carceri, dove i migranti subsahariani sono detenuti finché pagano un riscatto, la situazione è peggiorata: "Già nei mesi scorsi - spiega don Mussie - c'erano abusi di ogni tipo, ma adesso praticamente non danno più neanche il cibo".
I viaggi verso l’Europa. “Per i migranti – continua il sacerdote – il caos libico è un motivo in più per raggiungere l’Europa; d’altro canto, gli scontri rendono più difficile partire e fanno salire i prezzi”. I recenti combattimenti intorno a Tripoli hanno infatti spostato i punti di partenza lontano dalla capitale e un maggior numero di imbarcazioni salpano ora da est, ad esempio da al-Khums e Bengasi. Un gruppo di 500 siriani sono partiti la scorsa settimana su tre imbarcazioni direttamente da Bengasi, un punto di partenza nuovo e più pericoloso in quanto implica un viaggio più lungo verso l’Italia.
Nel 2014, sono circa 88mila le persone finora arrivate ??in Italia via mare, comprese le 11mila delle ultime due settimane; di queste si ritiene che 77mila siano partite dalla Libia. È una cifra doppia rispetto le traversate accertate avvenute l’anno scorso, che ha visto 43mila arrivi ??in Italia, circa la metà dei quali dalla Libia. Secondo l’Unhcr, oltre 1.000 persone sono morte nel Cimitero Mediterraneo quest’anno: le ultime 128, tra cui donne e bambini subsahariani, sono annegati la scorsa settimana al largo di al-Khums.(Repubblica.it)
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