Terremoto di Ischia, salvi i fratellini eroi. «Non vogliamo morire». E Ciro, il maggiore al pompiere che scava: «Mi vuoi bene?»...
Ciro, 11 anni, e Matias, 8, estratti vivi dopo 16 ore, Il più grande ha trascinato l’altro sotto il letto
di Goffredo Buccini
Questa è una storia di pompieri e di bambini. Un’altra. E di
una buca tra le macerie d’Italia. Un’altra. Dal fondo di quella buca, quassù a
Casamicciola, costa nord di una Ischia che si sveglia di soprassalto dal
languore dell’estate, sepolto da mattoni e ringhiere e cemento e terriccio e
angoscia e brandelli di vita di famiglia, si sgola un ragazzino di undici anni:
«Siamo qui, fate presto, tirateci fuori, fate presto!». Batte con una scopa
contro il solaio che adesso è diventato un coperchio e lo imprigiona assieme
alla rete del letto a castello dove poco prima di cena stava giocando con il
fratello minore, sette anni. Ciro e Matias, eccoli, pupille sgranate nel buio,
un filo di luce nella notte che attraversa questo nuovo terremoto venuto a
celebrare se stesso, quasi a un anno preciso dal sisma del Centro Italia, come
un tiranno ossessivo e prepotente. «Oh, ‘un ave’ premura, chicco!», non avere
fretta, gli risponde in un burbero fiorentino, per fargli coraggio, un pompiere
dei mitici Usar, gli stessi di Rigopiano e di tutti gli altri disastri che
hanno bollato il nostro calendario dal 24 agosto del 2016. I pompieri hanno
imparato ormai a parlare con i bambini. E i bambini di quest’Italia smozzicata
hanno imparato a fidarsi dei pompieri, come dei buoni della favola. Gli unici,
forse. A metà nottata i buoni hanno strappato alle macerie il più piccolo della
famiglia, Pasqualino, sette mesi. Spunta dalla fossa aperta nel tetto crollato
come un batuffolo rosa, incredibilmente intatto, risparmiato persino dalla polvere.
Lo afferrano Francesco e Teresa, gruppo Usar di Prati, Roma. «Ed è stato come
un parto, come rivedere nascere i miei bambini», si lascia scappare uno dei
loro capi, uno che dall’Aquila in poi non ne ha saltata una e dovrebbe essere
abituato. Non ci si abitua mai. Anche perché è sempre diversa.
Qui è molto diversa, la storia. Semplicemente non doveva
succedere. Per capirlo, bisogna salire dalla bolgia di fuggiaschi del porto di
Casamicciola, dove in diecimila tentano di imbarcarsi dopo la scossa 4.0
dell’altra sera, fino al rione Purgatorio, dove a centinaia tentano di
ritrovarsi e di ritrovare le loro cose. Mamma Alessia, di nuovo incinta, s’è
salvata per un soffio. Alessandro, il papà di Pasqualino, è stato salvato dalla
sua Toyota: era uscito per recuperare un giocattolo, le lamiere della macchina
lo hanno protetto in parte (anche qui la similitudine con Rigopiano e con il
destino da superstite di Giampiero Parete è impressionante). Ha la fronte
segnata, alla fine verrà ricoverato in ospedale. Ma dalle prime luci dell’alba
sta assieme ai pompieri quassù a scavare, perché infine li localizzano, sì,
grazie a quelle vocine dal basso, i bambini ancora prigionieri. Ciro s’è tirato
sotto il letto a castello il fratellino, lo stringe e si sgola. Ci litiga
anche, per scuoterlo quando quello sembra lasciarsi andare: «Non mi spingere!
Spostati!». Lo ossessiona: «Come stai? Come stai?». I pompieri allargano la
fenditura sopra di loro, «ci siamo, manca poco». «Non mi dite bugie che mi
faccio nervoso! Bugiardi!», risponde quella vocina tostissima, da lì sotto. Gli
calano l’acqua, due mascherine per la polvere, gli promettono pizze e cinema,
come si fa coi bambini in queste favole nere... Da sotto la vocina si fa
stridula, a momenti: «Non vogliamo morire... mi vuoi bene?».
Quando la fessura è grande abbastanza si vedono infine
quattro gambette intrecciate, i due fratelli sembrano un solo corpo. «Certo che
vi vogliamo bene!». Mattone dopo mattone, tegola dopo tegola, gli Usar
strappano al terremoto prima il più piccolo, poi il più grande, Ciro: quasi
sedici ore sotto la pila di macerie e la forza di ringraziare i medici che lo
stendono sulla barella spinale, gli fasciano il braccio e la gamba straziati
dalle travi. «È il Superman di questa storia» mormorano dal gruppo dei
caschetti rossi. Attorno, tra piazza Maio e la zona La Rita, il nuovo sole
illumina un terremoto concentrato in poche strade, in qualche piazza, quasi una
maledizione di quartiere: perché proprio qui, su questa terra di tufo dove non
si dovrebbe costruire e dove il 90 per cento delle costruzioni odora d’abuso,
sorgeva l’antica chiesa che fu spazzata via nel 1883, dal terremoto a cui
sopravvisse, pieno di sensi di colpa, Benedetto Croce. L’hanno ricostruita in
parte su via D’Aloisio, la chiesa di Santa Maria del Suffragio che chiamano
«del Purgatorio» e dà nome a tutta la zona. Dopo la barriera dei carabinieri
morte e vita s’ingarbugliano: pergolati e mura crollate, glicini e pareti
sventrate, dolcezza e orrore, una surreale sala da pranzo al primo piano d’un
palazzetto antico: tavolo con tovaglia a fiori, piatti pronti, una coppa da
torneo di calcetto in cima alla credenza... e niente più muri. Sulle terrazze
squarciate, ancora i panni stesi, calzini, reggiseni, segni d’una fuga
precipitosa. A terra i sandali bianchi e grigi di Lina Balestrieri, ammazzata
dal cornicione della chiesa, una macchia di sangue lì accanto. Sembra che
l’estate si sia presa una pausa per aprirsi all’inferno, in questo crocevia,
mentre giù al porto la vita si riorganizza sui ritmi degli aperitivi e delle
cene.
L’inferno è una svolta dopo, in questo budello, attraverso il
giardino dell’hotel Terme Vinetum, mura gialle spaccate a croce, come succede
quando il terremoto ondeggia e sussulta e devasta al peggio. Piscina vuota,
terrazzini sghembi, infine ecco via Serrato, la strada dei bambini. Giuseppe il
giardiniere, vicino della casa accanto, dice che nel palazzotto crollato
avevano tirato su altri due piani, «hanno fatto capa ‘e fierro e père ‘e
lignamm», testa di ferro su piedi di legno. Il sindaco smentisce ogni abuso. La
famiglia dei bambini è peraltro in affitto e comunque è presto per tirare
conclusioni, il fascicolo in Procura è contro ignoti. Di sicuro, tuttavia, qui
lo scempio edilizio non è un disvalore (si usa da sempre il «colpo di mano», il
tetto tirato su in una notte sola, come per magia). Sempre Giuseppe la spiega
chiara e tonda: «Se lo Stato dice che faccio un abuso e mi abbatte, ci sto. Ma
se si piglia le tasse pagate su quell’abuso, allora non è più abuso...o no?».
Ha una sua logica, certo, e del resto qui la prima promessa elettorale d’ogni
astuto candidato è salvare «l’abuso di necessità». Politica e polemica. Roba
che da oggi, calata la povere degli schianti, riempirà le cronache.
All’ospedale Rizzoli di Lacco Ameno, prima evacuato e poi riempito di feriti,
tutto questo non potrebbe essere più lontano da Ciro e Matias, vegliati adesso
dal loro papà, Guglielmo. Ciro dormicchia ma si sveglia di soprassalto sognando
di stare ancora lì sotto. Gli chiedono: cosa vuoi per regalo? Risponde: «Un
bacio»...
(Corriere della Sera)
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