LIBANO. Per non dimenticare 17.000 desaparesidos...





Un presidio di tende al centro di Beirut resta a baluardo della memoria delle circa 17.000 persone scomparse durante la guerra civile. Centinaia di loro sono finite nelle prigioni siriane e e non hanno più dato notizie

Roma, 17 aprile 2014, Nena News – Con la costanza che deriva dall’amore per i propri cari, i parenti dei libanesi scomparsi durante gli anni della guerra civile (1975-1990) e dell’occupazione siriana continuano a riunirsi nel centro di Beirut. Chiedono la verità sui propri mariti, figli, fratelli, amici, e negli ultimi tre anni denunciano il pericolo che coloro che sono stati incarcerarti in Siria, se ancora in vita, adesso rischiano di essere vittime del conflitto che devasta il Paese, nelle cui prigioni, peraltro, stanno scomparendo altre centinaia di persone.
È un presidio permanente, fatto di tende in cui talvolta anziani genitori trascorrono la notte e di cartelloni su cui sono attaccate le foto dei desaparecido libanesi, che da nove anni funge da baluardo contro il tentativo di dimenticare le circa 17.000 persone sparite durante il conflitto. Centinaia di loro, tra le 300 e le 600 persone, erano finite nelle carceri siriane, fermate ai posti di blocco o rastrellate durante le ricerche di miliziani, e adesso la guerra in Siria ha aggiunto un nuovo tassello a questa storia. Il governo di Beirut ha deciso che sono morti,  lo prevede una legge approvata nel 1995 che stabilisce che trascorsi quattro anni una persona scomparsa può essere considerata deceduta. Ma Mary Mansourati, 82 anni, è convinta che suo figlio Dani sia ancora vivo dopo 22 anni dall’arresto da parte dei militari siriani. “I nostri figli devono tornare a casa”, ha detto all’agenzia Associated Press, “siamo stanchi di fare avanti e indietro dal presidio, stiamo invecchiando”.
Non è l’unica a nutrire questa speranza, resa flebile dal lungo tempo trascorso, ma anche dal fatto che il Paese dei cedri non ha in effetti fatto i conti con questa questione. Non esiste una documentazione completa dei casi di scomparsa, né dei morti, dei feriti e degli sfollati durante la guerra civile. Persino i luoghi dove si trovano le fosse comuni non sono stati resi noti. C’è stata “un’amnesia collettiva”, ha spiegato l’ International Center for Transitional Justice, e il Paese non ha fatto i conti con il suo passato di rivalità e violenze settarie, non ancora sopite. Molti di coloro che guidavano o facevano parte delle milizie che durante il conflitto hanno massacrato decine di persone, adesso lavorano nell’amministrazione libanese, sono politici e funzionari. Cercare giustizia significherebbe scavare nel passato e minare il fragile equilibrio su cui regge il Libano. “Il discorso ufficiale è stato che se si vuole far prevalere la pace, è necessario dimenticare il passato e andare avanti”, ha spiegato Nizar Saghieh, legale di centinaia di famiglie di scomparsi. È una situazione simile a quella dell’Iraq, dove sono sparite 70.000 persone in trenta anni e anche lì si è cercato semplicemente di dimenticarle.
Ma evitare di acuire le rivalità che segnano il Paese  non è una buona ragione per chi da decenni ormai aspetta di avere notizie di un figlio, di un fratello, di un marito, di un amico, o, soltanto di avere giustizia, di sapere se esiste una tomba su cui piangere. Secondo i gruppi per i diritti umani, c’è una “cospirazione del silenzio” su questa questione: chi dovrebbe aiutare le famiglie a ritrovare i propri cari è probabilmente stato egli stesso un carnefice, forse ha collaborato con i siriani e di fatto ha contribuito alla scomparsa di centinaia di libanesi. Parlare adesso significherebbe fare un’ammissione di colpevolezza per avere commesso un crimine di guerra.
La speranza però non muore nei cuori dei parenti di quanti sono finiti nelle carceri siriane anni fa. Majida Hassan Bashasha, 59 anni, non ha più notizie del fratello Ahmed dal 1976, l’anno in cui le truppe di Damasco entrarono in Libano, ma è sicura che sia ancora vivo. Ahmed aveva 18 anni e fu fermato a un posto di blocco siriano a Beirut e, probabilmente, fu trasferito in Siria. Ogni anno Bashasha partecipa alle manifestazioni davanti alla sede dell’Onu e qualche anno fa alcuni ex prigionieri le dissero che avevano diviso una cella con Ahmed: “Il mio cuore mi dice che è vivo. Non hanno più bisogno di tenerlo in prigione”. 
(Nena News)

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