Nelle case dei “braccialetti rossi” dove i piccoli malati trovano il sorriso...




Così le strutture accolgono i bambini colpiti da tumore e i loro genitori

                                                       Nella «Casa di Andrea Tudisco», alle porte di Roma


ROMA

I pini e i lecci danno un po’ di riparo dalla fornace estiva che non ferma Cristopher, Agnese, Diana e gli altri bambini che schiamazzano tra biliardini, giocattoli e videogiochi nella Casa di Andrea Tudisco, alle porte di Roma. E’ il momento di lasciarsi alle spalle dolore e paure dopo la mattinata passata in ospedale a combattere il Re del male. Oggi il cancro colpisce più piccoli e adolescenti (13 mila casi ogni 5 anni nella fascia di età 0 a 19) ma che esce sconfitto oramai tre volte su quattro, quando negli anni ’70 a cavarsela era meno del 20%.  

Guariscono, dicono le ricerche internazionali, grazie anche al supporto psicologico che offrono le 54 realtà come la Casa di Andrea sparse sul territorio, con prevalenza al Nord, dove l’Aimac, l’associazione italiana malati di cancro, ne ha censite 30, delle quali ben 11 a Milano. A Torino, oltre alle Case Ail, presenti anche a Cuneo e Alessandria, opera Casa Ugi (Unione genitori italiani) che dal 2006 mette a disposizione 22 appartamentini bilocali, con bagno e cucina, che ospitano altrettante famiglie di piccoli malati oncologici. «Da noi è sempre alta stagione, perché la richiesta di chi viene da altre città o altre nazioni è alta, visto che durante i lunghi mesi delle terapie molti di loro non hanno le disponibilità economiche per affittare un locale», racconta Stefano Ribet, uno degli operatori. E allora senza queste strutture, l’alternativa resta quella di dormire in auto. Come ancora troppe volte accade, perché di queste Case famiglia, quasi sempre finanziate solo da donazioni private, ne occorrerebbero almeno cinque volte tanto. 

Così come lo Stato dovrebbe offrire un supporto in più negli ospedali, dove gli psiconcologi sono solo 240, in pratica meno di uno ogni duemila malati di tumore, mentre quelli specializzati nell’infanzia si contano sulle dita delle mani. Eppure il loro è un lavoro prezioso, perché come spiega la giovane psicologa Benedetta Parodi, nella sua ricerca condotta per l’Università Europea di Roma, «la diagnosi di cancro sfida il ruolo di protezione dei genitori, che possono arrivare a rifiutare le cure proposte a vantaggio di soluzioni magiche».  

«E poi ci sono i traumi non meno gravi nei fratellini sani, che sentendosi in colpa possono manifestare ansia, irritazione e collera». «Per questo –prosegue- è importante ricreare angoli di normalità, prima di tutto introducendo la scuola in ospedale, poi inserendo attività come la musico o la clown terapia».  

Ma quando i «camici invisibili» degli psiconcologi infantili non ce la fanno da soli ecco allora entrare in campo il mondo del volontariato delle Case famiglia.” Molte come la Casa di Andrea –racconta Fiorella Tosoni che l’ha fondata 20 anni fa- nate dalla volontà di genitori che come me hanno perso un figlio per il cancro, ma che ora provano un’emozione che è difficile raccontare vedendo la vita scorrere tra queste pareti”. Intanto i bambini schiamazzano tra i loro giochi.  

«Proviamo anche con il supporto degli insegnanti a farli studiare ma –ammette Fiorella- è una fatica perché dopo una mattinata di terapia la voglia è quella di divertirsi». «Ma poi –aggiunge con orgoglio- recuperano, come nel caso del piccolo Mihai, arrivato da noi a 10 anni dalla Romania e che ho avuto la gioia di vederlo laurearsi in Ingegneria chimica».  
Intanto il fragile Cristopher di Bari ci tiene a far sapere: «Io la matematica la continuo a studiare perché mi piace, anche se poi voglio giocare con la mia amichetta Diana».  

In mattinata il medico che lo ha in cura gli ha parlato, perché l’alleanza tra questi piccoli e tenacissimi pazienti e i loro dottori è fondamentale per il successo delle terapie. «Mi ha fatto capire tutto a ha detto che la prossima settimana posso tornare a casa, anche se –ammette- mi dispiacerà un po’ lasciare gli amici che mi sono fatto qui». «E infatti tanti piangono insieme a noi al momento del distacco» , raccontano i dottori clown «Tric-Trac» Ambrogio Scognamiglio e «Ciappotto» Iacopo Scascitelli, volontari come tutti qui. 

Renato Biagiutti di mestiere assiste che sta male prestando servizio al 118, poi il tempo che gli resta lo passa qui a inventarsi di tutto, dalle maratone alle cene di benficenza per raccogliere fondi a andare avanti.  

Ora l’obiettivo è raccogliere 25mila euro per acquistare un pulmino con pedana per gli spostamenti dalla Casa all’ospedale dei piccoli pazienti (chi vuole può farlo anche da qui alla sezione “sostienici”). 

Ma si avvicina l’ora di cena e Agnese 11 anni di Caserta, è curiosa di sapere cosa le ha cucinato sua madre, «anche quelle degli altri miei amici perché ci piace provare i piatti degli altri».  

Mentre la mamma Teresa prova scambiarsi le ricette con la giovane albanese Marsida, aiutandosi con google traductor. Sembra di essere su braccialetti rossi. Ma non è un fiction. E’ la realtà di un’altra Italia, dove la solidarietà vince sulla paura della malattia e dell’altro...

http://www.lastampa.it/2017/08/07/multimedia/italia/cronache/come-nasce-la-casa-di-andrea-che-aiuta-i-bambini-malati-e-i-loro-genitori-QA2m2O3mr3NlY1R9QyR3MN/pagina.html

(La Stampa Italia)






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