Mosul, i bimbi martiri figli dei foreign fighters...
Sono gli orfani della guerra all’Isis. Come Amina che parla solo russo
di GIAMPAOLO CADALANULE COLPE dei padri jihadisti ricadono sicuramente sui figli, quando questi restano soli fra le rovine di Mosul. La sconfitta dello Stato islamico nella capitale di Ninive ha rivelato che sono decine di migliaia i bambini soli: qualcuno ha perso i familiari negli scontri, qualcun altro invece balbetta con i soldati iracheni che i genitori stavano combattendo e ora non ci sono più. I militari più spietati li chiamano “figli di Daesh”, ma alla fine le immagini dimostrano che sono sempre cuccioli d’uomo, sporchi e abbandonati, affamati al punto da cibarsi di pezzi di carne cruda recuperati chissà come fra le macerie. Sono esserini spaventati, di fronte a cui persino la baldanza della Golden Division, il corpo d’élite di Bagdad, rischia di sciogliersi.
Nelle foto dell’americana Carol Guzy, la compassione dei militari di fronte ai piccoli disperati sembra palpabile. La reporter ha raccontato di Amina, non più di tre anni all’apparenza, che ai soccorritori si è rivolta in russo e in arabo ha saputo dire solo poche parole, per spiegare che mamma e papà erano diventati “martiri”. Molto probabilmente è figlia di combattenti ceceni, miliziani fra i più duri, arrivati in Iraq con la certezza del sacrificio estremo, nel nome della visione dello Stato islamico.
Un’altra bambina, che ha dato il nome di Khadija, è rimasta sola perché, dopo la morte di suo padre in battaglia, anche la madre ha deciso di partecipare alla jihad attaccando i soldati iracheni con una cintura esplosiva.
L’Unicef, agenzia delle Nazioni Unite dedicata alla tutela dell’infanzia, racconta che il numero di bambini non accompagnati nella zona di Mosul sta crescendo rapidamente. Com’è ovvio, non ci sono distinzioni possibili fra i figli dei jihadisti e quelli dei civili che l’Isis teneva in ostaggio. La priorità assoluta, dice Maria Paradies, specialista nell’istruzione per l’agenzia Onu, «sono i bambini rimasti senza più nessuno. Il lavoro dell’Unicef è prima di tutto indirizzato alla riunificazione delle famiglie, siamo stati in grado di riportare 1.300 bambini fra le braccia dei genitori». Ma non sempre questo miracolo è possibile. I piccoli profughi vengono affidati a strutture specializzate, con la necessaria assistenza psico-sociale: «A ognuno cerchiamo di fornire il supporto specifico per le sue necessità», dice la Paradies.
Per quanto difficile sia crederlo, queste creature lacere e spaesate sono ancora fortunate: man mano che lo smantellamento del sedicente Stato islamico va avanti, emerge una realtà atroce sul modo in cui gli integralisti considerano le nuove generazioni. È sconfortante scoprire che a Raqqa l’indottrinamento dei più piccoli consistesse in film “educativi” con miliziani vestiti di nero che trionfavano sugli infedeli e li decapitavano.
Più raggelante ancora è
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