Kafala, la schiavitù del terzo millennio...







Una nuova forma di schiavitù moderna. E, in Medio Oriente, legalizzata. Si chiama kafala, la traduzione in arabo di fideiussione. Un istituto di diritto islamico che dovrebbe dare garanzie alle lavoratrici, soprattutto domestiche. Ma che si è trasformato in una forma di abuso con la complicità dello Stato. In Libano riguarda 250mila donne. Il 65% delle lavoratrici hanno avuto esperienza di lavoro forzato e schiavitù. Sono spesso violentatemesse incinteabusatepicchiate, separate dai loro bambini, sfruttate, isolate, mal pagate e quando non servono più, rispedite nel Paese di origine da parte dei loro datori di lavoro. Tra gennaio 2016 e aprile 2017, 138 lavoratori migranti sono stati rimpatriati dopo la loro morte.
Oltre al Libano, la kafala è pratica comune in Bahrein, Iraq, Giordania, Kuwait, Oman, Arabia Saudita e Emirati. Il Libano è meta di tante lavoratrici provenienti soprattutto da Sri Lanka, Etiopia, Bangladesh e Filippine. Il sistema richiede che questi lavoratori dispongano di uno “sponsor” nazionale. Di solito “lo sponsor” è il loro datore di lavoro, che anticipa le spese per il permesso di lavoro ed è anche responsabile del visto e dello status giuridico. Ha quindi un enorme potere su di loro.
Questa pratica è stata criticata da molte organizzazioni per i diritti umani. I livelli salariali di questi lavoratori sono bassi, in alcuni casi meno di 200 dollari al mese. Un datore di lavoro libanese su cinque non fa uscire il lavoratore di casa. La motivazione è quella di salvaguardare l’investimento finanziario: per l’assunzione spende tra i 2mila e i 3mila dollari, che si potrebbero perdere qualora il lavoratore decidesse di scappare. La scusa è che il lavoratore domestico non dovrebbe avere relazioni al di fuori della casa, perché potrebbero avere l’effetto di distrarlo o di “corrompere” la famiglia.
Il funzionamento del sistema è semplice: le lavoratrici che vogliono emigrare per lavoro, entrano in contatto con degli agenti nel loro Paese. Questi hanno rapporti con agenzie nel paese dove le lavoratrici migreranno che procurano loro uno sponsor in cambio di un compenso. Oneroso. Le donne spesso si indebitano con la speranza di cambiare vita. E si ritrovano schiave.
Aisha, 20 anni, etiope, è arrivata da Adis Abeba. Si è salvata perché si rivolta alla ong “Immigration community center”. La incontriamo nelle sede di Mar Mitr, nel centro di Beirut, indossa una gonna corta nera e una t-shirt con su scritto “I love Paris”. Ma lei ha già sperimentato quanto gli uomini possano fare del male. Aisha ha lavorato per una famiglia di Beirut, ed è arrivata in Libano con grandi speranze.
“Sognavo una vita normale. Invece sono stata ingannata – racconta, con lo sguardo basso -. Mi trattavano peggio che una bestia. Lavoravo dalle 14 alle 16 ore al giorno. Non mi davano da mangiare. Non mi facevano dormire. Mi picchiavano, umiliavano. Non mi pagavano. Mi costringevano, quelle rare volte che mi era concesso, a dormire sul balcone. È stato un inferno”.
Lynn, invece, ha 40 anni, e viene dalle Filippine. Ha i cappelli ossigenati e le unghie delle mani colorate e disegnate. Un po’ come le donne libanesi. Ma lei è di Manila. È a Beirut da 20 anni. Era una ragazzina quando è arrivata. Scherzando dice che in questi anni però “è riuscita ad imparare l’arabo, perché “la madame” in casa voleva che si parlasse solo arabo”. “Prima di arrivare a Beirut ho vissuto qualche mese in Arabia Saudita, – racconta -, lì lavoravo in un ospedale, dopo mi hanno trasferito a Beirut, mi hanno detto che sarei rimasta qui solo 6 mesi, invece sono passati 20 anni”.
Racconta che in casa della famiglia per cui ancora oggi lavora “tutto è controllato con telecamere e registratori. In casa faccio di tutto, mi occupo di tutte le persone della famiglia. Nel week-end ci spostiamo in montagna. Lì nel giardino coltivano anche delle piante di marjuana per lo spaccio. Ma io non posso dirlo. Devo sottostare e subire. Lavorare per loro è peggio che lavorare per la mafia”.
La situazione è comune a centinaia di lavoratrici tanto che istituzioni e ong sono sempre più impegnate nel cercare di frenare sfruttamento e violenza. In prima fila ci sono l’Unione europea, la Caritas Libano, l’Ilo, l’ong Kafa (Basta) e il Migrant Community Center. Ghada Jabbour, direttrice di Kafa, ha raccontato che spesso queste lavoratrici sono in “trappola”, subiscono “violenze fisiche e sessuali, vengono isolate, non mangiano, lavorano nelle case di tutti i componenti della famiglia, non sono retribuite per il loro lavoro”.
Per Zeina Mezher, national project coordinator dell’Ilo è proprio lavoro forzato: “Sono costrette a lavorare per una determinata persona, sono rinchiuse in casa, non hanno una vita sociale, non possono trovarsi un altro lavoro. L’Ilo si sta adoperando perché il governo libanese firmi un protocollo che condanni il lavoro forzato nel nostro paese”.
Ma non c’è tempo da perdere perché si stanno moltiplicando i casi di suicidio. Lo conferma Farah Salka, direttrice del Migrant Community Center: “Molte tentano di scappare e muoiono saltando nel vuoto. Un mese fa una lavoratrice etiope si è buttata dal balcone della sua agenzia di collocamento, ed è morta”. All’inizio di giugno, un’altra etiope è stata trovata morta nella città di Blida, nel sud del Libano, appesa ad un ramo di un albero, vicino alla casa dei suoi datori di lavoro, con una piccola sedia accanto a lei. E chi invece riesce a scappare il più delle volte viene arrestato. Solo ad aprile sono stati 337...
(Gli Occhi della Guerra)

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