Colombia, storie di ex combattenti fuggite dalla guerriglia...




Il 40% dell'esercito delle Farc era composto da donne. Ma in 15 anni quasi 8 mila di loro hanno disertato. Perché costrette ad aborti forzosi. O strappate dai bambini che ancora oggi cercano di rintracciare. 





Nella guerriglia armata che per oltre 50 anni ha scosso la Colombia, le donne hanno avuto un ruolo di primo piano, almeno numericamente. L'importante presenza femminile nelle Farc (attorno al 40%) era in parte dovuta alla garanzia di libertà che spingeva molte donne a fuggire dalla violenza domestica o alla tratta di persone gestita dal narcotraffico. Ma se da un lato le Farc regolavano internamente gli aspetti riguardanti l’uguaglianza di genere tra i militanti (compiti e norme erano esattamente gli stessi), dall’altro hanno legittimato pratiche come l’aborto forzoso, in funzione del divieto di maternità. E anche per questo motivo, dal 2002 a oggi, quasi 8 mila combattenti hanno deciso di abbandonare la guerriglia.
RECLUTATE A SCUOLA O DA FAMILIARI. Victoria Sandino, entrata nelle Farc nel 1993, oggi è membro della Commissione di genere per gli accordi di pace: «Entrare nella guerriglia era una forma di empowerment in un Paese machista come la Colombia, dove sentirsi riconosciute e capaci di decidere non è scontato. All’interno delle Farc non sono mai state tollerate le violenze sessuali, punite con la fucilazione, ma neanche l’omosessualità». Secondo il ministero dell'Interno, l’87% delle donne combattenti ha impugnato il fucile quando non aveva ancora compiuto i 18 anni. Molte sono state reclutate nelle scuole dei villaggi, contattate da un familiare guerrigliero, alcune si sono arruolate per difendersi dal narcotraffico, altre per convinzione ideologica.
NELLE FARC A 13 ANNI. È il caso di Myriam, dell’Ejercito Popular de Liberación, altro gruppo ribelle armato: «Quando mi sono arruolata facevo la maestra in una scuola rurale e vedevo l’ingiustizia quotidiana. Sentivo la necessità di un cambiamento. Era il 1984 e la violenza della rivoluzione mi sembrava l’unica strada». «Si deve prendere in considerazione la nostra situazione in quanto donne», aggiunge un'altra ex combattente, entrata nelle Farc a 13 anni. «Alcune di noi avevano a carico figli, oltretutto cresciuti in contesti difficili. Oggi non faccio più parte della guerriglia, ma soffro di insonnia, faccio fatica a mangiare e devo ancora abituarmi al fatto che non ho più il turno di guardia».

Tra chi ha disertato prima dell'accordo di pace stipulato all'Avana tra governo e Farc ci sono molte vittime di aborto forzoso, spiega l’Agenzia Colombiana per il Reintegro, un organismo statale che accompagna queste donne verso una nuova vita in società. Una di loro racconta come dopo essere stata reclutata dalla guerriglia a soli 15 anni a Mapiripan, paese dove nel 1997 i paramilitari assassinarono decine di civili, ha deciso di fuggire: «Con la prima gravidanza non ho avuto possibilità di scelta e sono stata costretta ad abortire. La seconda volta ho insistito per poterlo tenere, e così è stato. Ho partorito, però dopo un mese mio figlio è stato portato in un accampamento diverso dal mio. Otto mesi più tardi sono stata assegnata al battaglione dove si trovava il mio bambino, allora ho deciso di scappare».
ALLA RICERCA DEL FIGLIO. Wendy ha una storia simile, ma viene dalla regione dell’Antioquia, tra le più colpite dal conflitto. Nel 2010 ha avuto un figlio, ma subito dopo il parto ha perso le tracce del piccolo. Da allora lo sta cercando. «Avevo deciso insieme al mio compagno di tenerlo, ma sapevo che se volevo continuare la mia vita come guerrigliera dovevo lasciarlo in custodia a un familiare. Ho provato a farlo, ma mio figlio non è stato dato in mano a persone fidate».
REINSERIMENTO COMPLICATO. Se la vita nelle montagne è ardua, il reinserimento in società spesso non è da meno: le ex combattenti vengono stigmatizzate, si ritrovano a fare i conti con un passato di violenza che le perseguita, e anche i piccoli dettagli della quotidianità possono rivelarsi problematici: «Faccio fatica a vestirmi con cose considerate femminili. Sono stata abituata per 20 anni all’uniforme. Ma qui mi dicono che devo mettere i tacchi, truccarmi, e io mi sento scomoda, non riesco a camminare, non ci riesco», racconta una ragazza dai tratti afrocaraibici. Proprio per aiutare le combattenti che hanno deposto le armi, Myriam ha iniziato a lavorare nella regione del Cauca, a Sud-Ovest, «per supportarle, ricordarle i loro diritti nel caso si trovino in situazioni di violenza, soprattutto domestica ed economica».

Maria Emma Wills, direttrice del Centro Nazionale della Memoria, creato dal governo non solo per commemorare le vittime ma anche per ristabilire il ‘diritto alla verità’ su questa lunga guerra, sottolinea come la forte presenza delle donne nella guerriglia non si sia tradotta in una partecipazione altrettanto rappresentativa agli accordi dell'Avana: «Nella transizione dalla guerriglia alla vita politica il rischio è che, come in Nicaragua o in Salvador, le donne non siano rappresentate adeguatamente. Questo vale per le Farc, ma anche per i partiti che con le Farc hanno negoziato. Il tetto di cristallo è sempre presente, dentro e fuori dalla lotta armata»...
(Lettera43)

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