Canzone per Nur e per le bambine di Mosul...







di Marta Serafini
Nur è nata il primo maggio scorso in una di quelle giornate torride e senza sole in cui l’Iraq non pare proprio un bel posto dove venire al mondo. Nur in arabo significa luce. E’ un nome comune, come dire Maria o Chiara in italiano. Nur è nata a Mosul, in uno dei quartieri “liberati” della parte Est della città, in una zona più povera della città. Fino a qualche mese fa in quelle stesse vie e in quelle stesse case dove vive la sua famiglia c’erano gli uomini di Isis.
La madre di Nur, Khadija, 36 anni, è sunnita e non è mai andata a scuola. Si è sposata a 20 anni e da allora ha fatto otto figli, tutte femmine, tranne uno. Quando sono iniziate le doglie, Khadija ha iniziato a camminare piano piano. Ad accompagnarla, una vicina di casa. Le due donne sono arrivate alla clinica ginecologica di Medici Senza Frontiere al mattino, poi Khadija si è seduta sul letto, tre spinte forti, e ha partorito senza nemmeno un lamento. «Prima dell’occupazione di Daesh il 30 per cento delle donne faceva family planning», spiegano Alix, 31 anni, coordinatrice della clinica e Francesco Segoni coordinatore dei programmi di Msf nella regione. «Usavano metodi tradizionali. Ma non era raro l’uso del condom o l’anello. Poi quando è arrivato Isis ogni forma di contraccezione è stata proibita». Il risultato è che ancora oggi molte donne hanno paura. E se già parlare di certe cose era un tabù, figuriamoci ora. «E’ difficile convincerle ad affrontare certi argomenti. Hanno paura. Pensano di poter subire ancora delle punizioni. Tutti dicono che Isis se ne è andato. Ma non è esattamente così, perché da certi posti Isis non se ne va mai».
Khadija e la sua vicina (Fotografia di Eugenio Grosso)Khadija e la sua vicina (Fotografia di Eugenio Grosso)
Durante l’occupazione molte donne come Khadija e la sua vicina sono state chiuse in casa per mesi. In certe zone della città in realtà la loro vita non è cambiata più di tanto. Anche prima di Isis dovevano chiedere il permesso al marito anche solo per uscire. Solo che dopo la paura è diventata più grande. «Se ti trovavano senza guanti o senza velo spesso ti picchiavano», racconta la vicina. Durante l’occupazione poi andare in ospedale era impensabile, a meno che non fosse strettamente necessario. «Molte donne hanno partorito in casa perché ai medici non era consentito visitarle, stessa cosa in caso di interruzione di gravidanza. Non sappiamo ancora quante donne siano morte di parto o abortendo negli ultimi tre anni, ma sappiamo che è stato un grosso problema», spiega ancora Alix. Khadija è la paziente 130, da quando la clinica di Msf ha aperto. Se ne sta tranquilla sdraiata sul letto, con le lenzuola pulite. La sua vicina le sta a fianco. Ogni tanto però l’ansia le attraversa gli occhi. Cerca di alzarsi per sistemarsi il vestito viola scuro. «Devo tornare da mio marito e dai bambini». «Khadija, ti devi riposare, qui puoi, fai la brava», le diciamo tutte. Ma Khadija non ce la fa ad aspettare.
Quando l’hanno lavata e messa nella culla, Nur invece non ha fatto troppe storie. Teneva il pugno chiuso e gli occhi pure ma ogni tanto si guardava in giro per vedere dove fosse finita, con la bocca aperta. Sua madre non l’ha presa in braccio subito. Ma le ha messo un vestitino bianco che ha usato anche per le altre figlie, in testa un cappellino bianco anche se fuori faceva caldo. Nur è nata qui e non in casa perché Medici Senza Frontiere a Mosul sta operando in prima linea, anche dove tutti gli altri non arrivano, con due cliniche, una aperta ventiquattro ore su ventiquattro, un ospedale e un centro pubblico di assistenza sanitaria. E’ stata pesata (2 chili e 700), visitata e controllata. Il 1° maggio stava bene. Forse le è andata meglio degli altri 100 mila bambini che sono ancora intrappolati a Mosul Ovest sotto le bombe e sotto il coltello di Isis. Nur giocherà e magari avrà anche dei giorni felici. Forse riuscirà a diventare altro oltre che una moglie e una madre. Magari, quando la ricostruiranno, si iscriverà all’università di Mosul che era una delle più importanti dell’Iraq e che è stata distrutta dai raid e dalle mine. Se le piacerà sarebbe bello che potesse fare sport, come sognano tanti ragazzini iracheni che vogliono giocare a calcio. Ma soprattutto, come dice un proverbio arabo, Nur magari sarà abbastanza fortunata da vivere in modo che quando morrà tutti piangeranno e lei sarà felice...

(La Ventisettesima  ora)


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