Nuovi cittadini nella sala del Tricolore di Reggio Emilia...




di Marina Petrillo

Dove una volta al mese si svolge la cerimonia di conferimento della cittadinanza nello stesso posto in cui 220 anni fa nasceva il tricolore


 Immagini dalla cerimonia di conferimento della cittadinanza di Reggio Emilia, il 17 febbraio 2017 (foto di Marina Petrillo)


«Vogliamo dire alla popolazione che i nuovi reggiani hanno tante facce diverse. A voi adesso sta partecipare, dire la vostra, impegnarvi nella comunità anche per cambiarla», dice l’assessora alla Città internazionale Serena Foracchia nella grande sala consiliare del municipio di Reggio Emilia. Qui, il 7 gennaio 1797, è nato il tricolore italiano. Dalle balconate bianche disegnate dal Bolognini, alcune signore nigeriane osservano timide la cerimonia con cui oggi diventeranno cittadine italiane. Nonostante si ripeta una volta al mese, non sembra un avvenimento rituale. L’assessora fa un’introduzione, ognuno fa il suo giuramento, poi ogni nuovo cittadino viene chiamato per nome, si alza e va a prendere una copia della Costituzione dalle sue mani. Si fanno le fotografie, si stringono le mani, e ogni nuovo cittadino viene salutato da un piccolo applauso. I bambini piccoli strillano nei corridoi del municipio o infilano la testa fra le balaustre del teatro per osservare la cerimonia. C’è chi è venuto in felpa e pantaloni da lavoro, chi con l’abito delle grandi occasioni, chi è solo e chi è accompagnato da tutta la famiglia, chi si fa i selfie con la bandiera sullo sfondo, chi è nervoso e emozionato, chi porta un mazzo di fiori con un nastro tricolore. In meno di un’ora vedo le fisionomie più diverse, e conto provenienze da Russia, Bulgaria, Nigeria, Cina, Bangladesh, Pakistan, Egitto. «Fate che sia un giorno di festa, ricordatelo, e raccontatelo ai vostri figli», dice l’assessora, e si emoziona quando una signora incinta le va incontro per ritirare il suo certificato. Fra queste persone, che in un certo senso oggi nascono di nuovo, ci sono i giovani delle seconde generazioni, sia quelli che hanno richiesto la cittadinanza quando sono diventati maggiorenni, sia quelli che l’hanno ottenuta attraverso altri iter.




Isma Anwar ha vent’anni. Figlia di genitori pachistani del Punjab e arrivata in Italia da Gujirat quando ne aveva sei, oggi è diventata cittadina italiana. Un minuto dopo di lei, ha preso la cittadinanza anche il fratello maggiore; hanno un altro fratello e un’altra sorella, e su sei componenti della famiglia, sono gli ultimi ad ottenerla: «Siccome sono la più piccola, i miei fratelli ormai mi prendevano in giro, dicevano che la cittadinanza non volevano darmela, che mi avrebbero rimandato in Pakistan», scherza Anwar, con un sorriso malizioso e i grandi occhi neri. Prendendo il libriccino della Costituzione dalle mani dell’assessora Foracchia, poco fa, si vedeva che era molto emozionata. Suo padre è emigrato in Italia per lavorare, e dodici anni fa ha ottenuto i documenti necessari per portare la famiglia a Reggio Emilia, dove Anwar ha fatto tutte le scuole. Essendo la più piccola, è anche quella della famiglia che ha imparato più velocemente l’italiano. «In seguito sono tornata in Pakistan soltanto dieci anni dopo; da bambina, appena partita, mi mancava molto; poi mi sono abituata, e paradossalmente ho cominciato a sentirne la mancanza soltanto dopo esserci tornata da ragazza – io mi sentivo del tutto italiana, e quando sono arrivata lì mi sono stupita di sentirmi a casa; in un certo periodo non ho potuto viaggiare perché ho avuto un sacco di problemi con i documenti; per quasi un anno, mentre tutti in casa avevano il permesso di soggiorno, io ero una specie di clandestina, perché in qualche ufficio avevano sbagliato a scrivere il mio nome, e non combaciava più coi documenti pachistani. Poi per poter avviare la procedura per chiedere la cittadinanza, lo stato italiano chiede che fra i documenti si alleghi il certificato penale del paese d’origine, quindi sono dovuta tornare in Pakistan e far certificare che da zero a sei anni non avevo commesso alcun crimine!», dice ridendo.
Sia lei che il fratello hanno richiesto la cittadinanza non al raggiungimento della maggiore età, ma seguendo la procedura dei “dieci anni”, cioè per aver maturato dieci anni di residenza in Italia. Fino a quel momento erano andati avanti coi rinnovi del permesso di soggorno – prima permessi che duravano due anni, poi cinque. Dal momento in cui hanno fatto la richiesta, ci hanno comunque messo altri due anni a ottenere la cittadinanza. «Per i primi due anni ti dicono che è anche inutile chiedere informazioni, non è previsto. E poi devi cominciare a sollecitare, andare tu incontro agli uffici e alla burocrazia, perché la burocrazia non viene incontro a te», mi dice il fratello. Il padre aveva chiesto la cittadinanza per sé quando Anwar era ancora minorenne, e sperava così di farla ottenere automaticamente anche a lei; ma ora che gliel’hanno accordata, era passato troppo tempo, Anwar era diventata maggiorenne e così aveva perso questa possibilità. Il fratello mi racconta dei problemi avuti in banca con l’approvazione dei bilanci della sua piccola azienda, non perché non fossero in ordine, ma perché lui risultava ancora cittadino pakistano. Legalmente, mi dice, questo non comporta vincoli, ma è normale che in banca le questioni di percezione abbiano un peso. Adesso è curioso di vedere se la sua vita quotidiana e il suo lavoro saranno più facili. «Trovo molto strano che un cittadino straniero, anche residente all’estero, possa acquisire la cittadinanza facilmente attraverso il matrimonio con un cittadino o cittadina italiana», dice Anwar, «mentre noi che lavoriamo qui e paghiamo le tasse qui e siamo membri della comunità dobbiamo affrontare un iter così lungo e difficile. In ogni caso, i tempi per ottenere la cittadinanza sono molto migliorati rispetto a qualche anno fa».




Anwar parla italiano, inglese, urdu e punjabi. In casa coi genitori, lei e i fratelli parlano urdu, ma tra fratelli si parlano in italiano. Diventare cittadina italiana era per lei più importante che mai: «Io studio legge», mi dice con molta fierezza, «e i diritti per me sono molto importanti. La pienezza di poter partecipare attraverso il voto alle elezioni, di contribuire a costruire l’Italia. E diventarlo a Reggio è ancora più significativo perché è speciale, qui ti incoraggiano molto a partecipare». I genitori anche hanno pensato qualche volta che un giorno torneranno in Pakistan, ma la vita che hanno conquistato per i loro figli è in Italia. Grazie agli accordi bilaterali, ora che hanno ottenuto la cittadinanza italiana Anwar e suo fratello non devono rinunciare al passaporto pakistano, e avranno sempre la doppia cittadinanza. «Quando torno in Pakistan non mi fanno sentire diversa o discriminata perché sono anche italiana: se non ti dai delle arie», dice Anwar sorridendo, «ti prendono per quello che sei. Ma siccome noi siamo sempre in bilico, spesso all’aeroporto nasce qualche gag, tipo “lei di dov’è?”, “sono pakistana”, “sì, ma da dove viene?”, “dall’Italia, perché?”». Ride, poi si fa di nuovo seria. «Io sento che mi trasformo, ogni volta che vado là, e ogni volta che torno qua. In Pakistan, poi, e da bambina a questo non ci pensavo, succede che per l’aspetto fisico e l’abbigliamento mi mimetizzo, scompaio fra tutti gli altri, cosa che qui non può succedere».
L’assessora Foracchia esorta le seconde generazioni da una parte a rispettare i valori fondanti della Costituzione, dall’altra a lottare per cambiare le leggi che sono rimaste indietro rispetto ai progressi della società. «Questi giovani hanno una motivazione che a noi italiani manca, perché devono affrontare molte difficoltà, e ingegnarsi per trovare soluzioni, aggirare ostacoli», mi dice nel suo ufficio dai vecchi mobili cosparsi di carte che sembra uscito dalle fotografie di Luigi Ghirri. «Quando un bambino si trova in un ambiente estraneo, sviluppa non solo dei talenti particolari per farsi accettare, ma anche un desiderio di rivalsa». Foracchia, 40 anni, due figli piccoli e anni di impegno nella progettazione europea e nelle relazioni internazionali prima di diventare assessore, parla anche per esperienza, visto che da bambina si è trovata all’improvviso, senza sapere l’inglese, a un banco di scuola in Tanzania dove le uniche cose in cui poteva farsi valere erano quelle che non avevano bisogno di parole – il disegno e la matematica. Sotto il portico del municipio, le targhe in pietra ricordano le cifre della vittoria della repubblica al referendum del 1946. Da tre anni, il ripido scalone di pietra – su cui reggiani delle culture più svariate la fermano per offrirle il caffè in piazza Prampolini – è solo una delle sfide che Foracchia affronta ogni giorno. Non ha ereditato soltanto la missione interculturale impostata da Graziano Delrio quando era sindaco, ma anche quella, ancora precedente, della tradizione internazionalista e filo-africana di Reggio Emilia. Le sue deleghe infatti sono Progettazione europea per le strategie di sviluppo, Promozione della città, Relazioni internazionali, Diritti di cittadinanza, Città interculturale. «Il mio compito è, per esempio, proiettare nel futuro la tradizione di Reggio vicina alle lotte degli africani lusofoni per l’indipendenza dal colonialismo». Nell’ospedale della città, all’inizio degli anni Settanta, venivano ricoverati e curati i guerriglieri del Fre.Li.Mo (Frente de Libertaçao de Moçambique), fra i quali Samora Machel, che nel ’75 sarebbe diventato presidente del Mozambico. «Se a Pemba chiedi a un mozambicano qual è la capitale dell’Italia, ti dice Reggio Emilia».
«È molto faticoso far capire ai reggiani quanto sia importante e foriera di prosperità l’intercultura, ma è l’unica strada. Anche i reggiani, come il resto degli italiani, tendono a mettere la testa sotto la sabbia, non accettano di mettersi in discussione». La propaganda securitaria, dice Foracchia, è arrivata anche a Reggio, un po’ per la crisi economica, che ha colpito anche qui, e un po’ per lo stesso impaurimento che ha investito tutti gli italiani, una forma di nostalgia per bei tempi che non sono mai esistiti. «Considera che siamo passati da praticamente lo zero per cento di disoccupazione all’8/9 per cento – e nell’immaginario contadino, non c’è niente di peggio che non avere nulla da fare. In una città così piccola, il ragazzo senza lavoro finisce per bighellonare in piazza o al parco, dove lo vedono tutti, e questo incontra grande disapprovazione. A maggior ragione se si tratta di immigrati, che nel limbo burocratico del sistema di accoglienza sono impossibilitati ad avere un vero lavoro. Per i reggiani non c’è niente di peggio che stare con le mani in mano».
Pur essendo decisamente un pianeta a parte, Reggio è pur sempre Italia. «Qui c’è il torpore assoluto, dovuto al fatto di vivere in un paese sempre uguale. Abbiamo bisogno di persone che si sveglino». E se i giovani delle seconde generazioni sono una parte consistente del futuro di Reggio, e quelli più inclini ad essere svegli, il problema del futuro è proprio quello su cui i reggiani fanno resistenza. «Qualche anno fa ho visto i risultati di una ricerca che paragonava le idee di passato, presente e futuro a seconda delle diverse culture», dice Foracchia. «Erano rappresentate sotto forma di bolle, e gli italiani avevano una bolla gigantesca che rappresentava il passato, e una piccolissima che rappresentava la loro idea del futuro. E più hanno paura del futuro, e più la bolla si restringe». Per l’assessora, ogni adolescente raggiunge un bivio dove deve farsi delle domande sulla propria identità, e sul proprio ruolo nella società, e le seconde generazioni ce l’hanno doppio: «ma chi quel bivio lo coglie in positivo», dice, «diventa leader»...
(Il Post)


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