La generazione perduta della Siria...




Il nuovo rapporto di Save the Children fotografa i traumi dei bambini, i più fragili tra le vittime della peggior crisi umanitaria dalla seconda guerra mondiale



FRANCESCA PACI


Mahmood (nella foto in alto) ha un anno e 4 mesi. È nato nella stazione di benzina abbandonata nel distretto di Tel Abias dove la sua famiglia ed altre 4 famiglie vivono dal 2015, dopo aver lasciato Raqqa sotto la pressione dell’Isis. 


Saeed, 3 anni, abita presso lo stesso distributore abbandonato in cui vive Mahmood. Al di là di sua sorella maggiore Layla (nella foto qui sotto) è solo al mondo. 



Mos’ab (sotto) ha 9 anni e vive con la famiglia in una tenda nel campo profughi di Al Hol, nel governatorato di Hasakah. 



Zainab (sotto), 11 anni, ha abbandonato la casa natale a Deir Ezzour 3 mesi fa e adesso vive con la madre Muna e i fratelli Basel e Yasir, di 8 e un anno, in una tenda nel governatorato di Hasakah Governorate. Racconta che il suo fratellino non sa più contare, ha dimenticato quanto faccia uno più uno e non ricorda quasi più le lettere dell’alfabeto.  



Ahmed (qui sotto), 12 anni, vive in una baracca con 14 membri della sua famiglia. 



Ibrahim (sotto) ha solo 7 anni: è nato un anno prima che nel marzo del 2011 i siriani scendessero in strada pacificamente chiedendo democrazia per ritrovarsi inabissati in una guerra sanguinaria e senza fine. 



Mahmood, Saeed, Layla, Mos’ab, Zainab, Ahmed e Ibrahim sono gli occhi della guerra, quelli che continuano a guardarci anche quando la matematica prende il sopravvento e i numeri della morte stendono sulle nostre coscienze il velo della distanza impersonale. I loro volti e le loro storie sono state immortalate da Save the Children in un rapporto scioccante intitolato “Ferite invisibili” che raccoglie i traumi di 458 minori sfollati dentro la Siria e che viene presentato questa mattina, a una settimana dal sesto anniversario della coraggiosa quanto sfortunata rivolta contro il regime di Damasco (perché tale fu l’inizio della attuale carneficina siriana). 

Cosa mettereste nella borsa da viaggio dovendo scegliere qualcosa di cui non potete fare a meno?, hanno chiesto i volontari ai ragazzini in una delle prime fasi dello studio, quella preliminare, per rompere il ghiaccio. Le loro risposte sono la sintesi di una generazione perduta: Kamal, 11 anni, di Aleppo, si porterebbe «un carro armato per distruggere tutti gli areoplani», Arwa, 15 anni, vorrebbe «una scuola e degli insegnanti per poter continuare a imparare», Ashraf, 8 anni, menziona il padre ucciso perché era il solo a farlo divertire. Potendo scegliere invece qualcosa da impacchettare e far sparire per sempre Omar, 15 anni, cita «le bombe che sembrano giochi ed esplodono nelle mani dei bambini», Aisha, 8 anni, eliminerebbe «tutte le armi», Fadi, 15 anni, sogna di cancellare «la paura» e Bashir, 15 anni, mette in cima alla lista «la povertà» perché proprio non ce la fa più a reggere il freddo e la fame.


I dati di Save the Children sono spaventosi. E non perché non si sappia che la Siria è la peggiore crisi umanitaria dalla seconda guerra mondiale (quasi 7 milioni di sfollati interni, 4,9 milioni di rifugiati, 4,6 milioni intrappolate in aree sotto assedio, 5,8 milioni di bambini bisognosi di aiuto, almeno 250 mila morti fino all’inizio del 2014 quando le Nazioni Unite hanno deciso di non contarli più). Ma perché a forza di vedere in tv le immagini dei piccoli profughi con gli zainetti simili a quelli dei nostri figli ci siamo un po’ assuefatti, secondo un’attitudine voyeuristica da cui metteva in guardia Susan Sontag nel libro “Regarding the Pain of Others”. E allora un pugno nello stomaco può servire: oltre 3 milioni di siriani hanno meno di sei anni e conoscono altro che la guerra, uno ogni 4 bambini che ancora sono nel paese è ad alto rischio di disordini mentali, circa tre milioni vivono in aree di combattimenti violenti.  

Lo studio - realizzato quasi interamente nelle aree controllate dall’opposizione ma con una sezione dedicata ai disordini mentali nella Siria governativa - è lungo, dettagliato, accompagnato dai commenti di psicologi, psichiatri, educatori, insegnanti. La sintesi disegna un orizzonte blindato. Secondo l’89% dei genitori i bambini sono diventati più nevrotici e aggressivi, secondo il 71% hanno sviluppato problemi nel trattenere la pipì. Due terzi dei piccoli intervistati hanno perso almeno una persona cara, uno su quattro non ha nessuno da cui rifugiarsi quando ha paura, uno su due ha visto moltiplicarsi gli abusi domestici, il 51% degli adolescenti ammette di ricorrere a delle droghe per vincere l’ansia e, a detta degli insegnanti, il 48% sta perdendo la capacità di parlare fluentemente. Evocano la morte, tengono lo sguardo nel nulla, urlano, faticano ad addormentarsi ma anche a svegliarsi, vorrebbero evadere dalla realtà: i casi di suicidio sono in crescita. 

Si chiama “toxic stress”, spiega la dottoressa Alexandra Chem, esperta di salute mentale ad Harvard. È un fenomeno drammaticamente in crescita da almeno 20 anni, da quando la proporzione di vittime civili dei conflitti armati è passata dal 5% al 90%. Si può curare. Ma, dopo sei anni di guerra, “molti bambini siriani hanno perso tempo critico e i danni possono essere irreversibili”. Il risultato sono le loro sensazioni: “Sono sempre arrabbiato”, “Ho paura di uscire”, “Se improvvisamente non sentissi i bombardamenti mi sentirei perso”, “Sono triste quando arriva il tempo delle vacanze perché non ho più scuola, genitori, niente”.  

La scuola ritorna negli incubi dei bambini, è la normalità perduta. In sei anni ci sono stati oltre 4 mila attacchi alle scuole, quasi due al giorno. Una scuola su tre è fuori uso, molte delle altre sono diventate tendopoli per sfollati. Oltre 150 mila tra insegnanti e educatori hanno lasciato il paese (dove un tempo il tasso di alfabetizzazione era del 95%). Metà degli adulti interpellati ha visto bambini arruolati, inquadrati ai check point, armati. Accanto ai piccoli soldati ci sono poi le piccole spose, rapite e violate a 11 anni se non addirittura consegnate dai genitori per lucro o per la convinzione che un marito sia pur sempre una protezione. Qualcosa si può ancora fare, chiosa Save the Children. Possono farla le Nazioni Unite, le diplomazie, i mediatori internazionali. Possono farla i governi se i loro popoli non distolgono lo sguardo.  




(La Stampa Mondo)

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