Nouar, la profuga siriana in viaggio da tre anni per reincontrare il figlio...




Partita da Raqqa, vorrebbe arrivare Londra. Un’odissea che non finisce mai tra barconi, marce infinte e campi profughi. Ora è bloccata con la figlia maggiore in Sardegna



         Nour e la figlia maggiore Mira in aeroporto: il loro sogno è un volo per Londra (foto Alessandra Chergia)


CAGLIARI

In un mondo senza confini, il viaggio di Nour sarebbe durato poco più di 48 ore.Sarebbe stato sufficiente mettersi al volante e fare il pieno tre o quattro volte, perché i 4680 chilometri che separano Londra dalla martoriata Siria si possono percorrere tutti in auto. Ma per Nour e la sua bambina Mira, la distanza è diventata incolmabile. E col passare del tempo è addirittura come se si fosse allungata ulteriormente. Tra l’incubo delle bombe e il sogno di un futuro di pace, una strada possibile c’è. Nour e la sua piccola stanno provando ad attraversarla da quasi tre anni: a piedi, in treno, anche su un barcone. Hanno rischiato di annegare e camminato nel fango, dormito al freddo e trascorso molte giornate senza mangiare. A un certo punto erano sicure di esser quasi arrivate, ma all’improvviso si sono trovate più indietro di prima. Ora sono bloccate in un centro per migranti alle porte di Cagliari. A tutti viene da chiedersi cosa c’entri la Sardegna in questa incredibile vicenda.  

Per capirlo bisogna partire da Deir el-Zor, una città devastata dalle bombe nell’est della Siria, a 150 chilometri da Raqqa, una delle roccaforti più inespugnabili dell’Isis. Sulle case di Deir el-Zor piovono bombe da anni e per chi ha scelto di non combattere la vita è diventata impossibile. Un rischio continuo, di giorno come di notte. Per questo, ad aprile 2014, Nour pensa di affidare il suo bimbo di tre anni alla cognata che per prima trova il coraggio di fuggire in Inghilterra. «Il piano era quello di andar via tutti insieme, ma il viaggio era troppo costoso e non avevamo i soldi necessari. Ho pensato di mettere al sicuro il bambino più piccolo, certa che io e Mira saremmo partite il prima possibile. Due mesi dopo, infatti, ci ho provato: mio marito lavora come spazzino negli Emirati Arabi e così sono andata a Dubai a chiedere l’aiuto dell’ambasciata inglese per arrivare a Londra. Ma è stata la prima doccia fredda».  

Nouar a Cagliari con la figlia più grande, Mira (foto di Alessandra Chergia)  

L’attesa dura tre mesi e il permesso viene negato. Nour non si arrende. Il piccolo Adnan piange ogni giorno, chiede di rivedere la mamma. Per ricomporre la famiglia resta una sola possibilità: il viaggio più lungo, quello che prevede faticose camminate, soste interminabili nei campi profughi e una rischiosa traversata sul barcone. «Pur di riabbracciare il mio bambino non ci sono sacrifici che mi spaventino e anche ora, dopo tutte queste disavventure, sono pronta a ripartire. Ma mi chiedo: perché sono costretta a soffrire così tanto? Che colpe ho se nella mia città piovono bombe e non è possibile vivere? Non è forse un mio diritto vivere con i miei figli lontana dalla guerra?».  

Nour ha trent’anni e la forza di una roccia secolare. E a dicembre 2015, mano nella mano con la sua Mira, inizia il secondo viaggio. Quello più duro. Per una settimana mamma e figlia camminano ininterrottamente e arrivano in Turchia: «Pioveva di continuo, ci siamo riempite di fango, ma non abbiamo potuto neanche lavarci. Abbiamo attraversato durissime salite in montagna e oltre il confine siamo salite su un auto. In tre ore siamo arrivate a Smirne, una città sulla costa, e abbiamo atteso venti giorni che ci facessero salire sul barcone per la Grecia. Gli scafisti aspettavano di mettere insieme un bel gruppo, ma alla fine eravamo in troppi». 

Cinquanta persone su una chiatta di pochi metri, che infatti rischia subito di andare a picco. Si rientra in porto, ma di li a poco si organizza la seconda spedizione: cinque ore in mare e poi il naufragio. «Eravamo vicini alla costa ed è stato un miracolo. Il mare era agitatissimo e gelido, io non so nuotare e pensavo che non ce l’avremmo fatta: stringevo Mira al braccio, la trascinavo. Un ragazzo sconosciuto ci ha aiutato. Non sapevamo dove fossimo e prima di spostarci ad Atene abbiamo dovuto aspettare 4 giorni in un campo. Non ci davano da mangiare e io credevo di morire di freddo». 

Da Atene inizia l’avventura dei Balcani: due giorni in Macedonia, altri due in Serbia, uno in Croazia e uno in Slovenia. Ancora due in Austria e poi l’arrivo in Germania. «Finalmente i vestiti nuovi. Dalla Siria all’Austria non ci siamo mai cambiate: nonostante il fango e il bagno in mare». Una buona notizia e una cattiva si susseguono nel giro dei sei mesi successivi: le autorità tedesche concedono a Nour e Mira l’asilo politico ma respingono la richiesta di ricongiungimento. Adnan, che nel frattempo ha compiuto 6 anni, non può vivere in Germania con la mamma. Ma la mamma non vuol stare lontano da lui. «L’ho visto solo una volta, mia cognata mi ha fatto un immenso regalo portandolo da noi quando eravamo in Germania, ma siamo stati insieme solo poche ore. Ogni giorno riguardo il video dell’incontro e piango». 

Il video dell’unico incontro tra Nour e Adnan negli ultimi tre anni, in Germania (foto Alessandra Chergia)  

Nour si dispera e di fronte all’ennesima barriera si affida a un venditore di falsi passaporti e false promesse. «Mi ha detto che passando per l’Italia sarei riuscita ad arrivare a Londra e a rimettere insieme la famiglia. Mi ha consigliato di venire a Cagliari, perché qui i controlli non sono severi. Mi sono fidata ma dai primi giorni di gennaio siamo di nuovo bloccate. Siamo partite in aereo da Francoforte: prima tappa a Milano e poi in Sardegna. Il 7 gennaio abbiamo cercato di salire sul volo per Londra ma siamo state fermate all’imbarco. Ora viviamo in questo centro per migranti e le autorità tedesche mi assicurano che presto potremo tornare in Germania. Ma questo sarebbe un altro passo indietro. E Adnan quando lo rivedrò?»...

(La Stampa Italia)

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