NELL'INFERNO DEI MIGRANTI A BELGRADO...




Persone bloccate in Serbia tra ratti, escrementi e immondizia, nelle macerie di una stazione che rappresenta il capolinea dell'Ue sull’immigrazione. Il fotoreportage

"Non li vogliamo qui, il fumo proveniente dalle loro baracche è insopportabile, non lavorano, non parlano la nostra lingua, non sanno se verranno mandati indietro e non possono andare avanti perché l'Ungheria non li fa passare, mica potranno stare qua per sempre, noi abbiamo da pensare alle nostre cose”.
La barista della stazione dei treni di Belgrado non sembra contenta del grande numero di migranti afghani e pakistani a pochi metri dal suo locale.
Sono circa 1.200 gli immigrati clandestini che in condizioni disumane vivono nella parte in disuso della stazione, senza il minimo confort e senza l'aiuto delle autorità. Medici senza frontiere e altre Ong e network, come No Border, si trovano stabilmente all'interno del campo e aiutano come possono la moltitudine di ospiti indesiderati, con i quali il governo serbo non vuole avere a che fare.
Ogni necessità primaria viene meno nell’inferno di Belgrado, l'ennesima Calais ai piedi di un imponente muro. La frontiera Europea più inespugnabile di tutte, quella che gli Ungheresi hanno potenziato nel 2015 a fronte del milione di siriani che hanno “invaso” l'Europa all'inizio della “loro” guerra.
Consultando il numero di richiedenti asilo in Ungheria, il pericolo reale di una invasione sembra non sussistere. Ma il governo iper-nazionalista di Victor Orban è deciso a interrompere il viaggio dei migliaia di disperati che dopo aver attraversato Afghanistan, Iran, Turchia, Grecia, Montenegro e Bulgaria ed essere arrivati in Serbia si trovano una muraglia dotata di droni e sensori di calore.
La potenza della tecnologia per ribadire il concetto: voi non entrate.
Ogni notte taxi e macchine di privati prelevano alcuni clandestini destinandoli ai trafficanti, i professionisti che per tre mila euro ti portano in cima al muro più odiato e ti guardano scappare dalla polizia, dai suoi cani, dai droni, dalle armi, dalla violenza feroce di chi dopo secoli di dominio ottomano non dimentica.
Bambini e ragazzi portano i segni della “sconfitta” sui loro corpi quando la polizia ungherese li rimanda in Serbia. In alcuni casi le botte delle forze dell'ordine si aggiungono a quelle patite a casa. Molti di loro mi dicono di essere stati picchiati dai Taliban.
“Io e mio fratello vivevamo insieme in una casa che i nostri genitori con molti sacrifici ci avevano costruito. Quando i Taliban l'hanno espropriata in nome dello stato Islamico abbiamo fatto resistenza e ci hanno accoltellato entrambi”, racconta Aziz, un ragazzo di 19 anni, scappato dalle perseguitazioni in Pakistan. Mi mostra un taglio orizzontalmente da parte a parte. “Ti prego, aiutami. Fai qualcosa, fammi uscire di qua, sono ferito e non so quanto resisterò qui. Fa troppo freddo’’.
La guida ci spiega che qui tutti i migranti dicono di essere perseguitati dai Taliban, ma c'è poca chiarezza su questo. Aziz racconta la verità, ma altri la usano come scusa.
La notte cala e il fumo si infittisce, si brucia tutto: le traversine dei binari, la plastica, il legno imbevuto di vernice, i vestiti troppo sporchi da poter essere indossati, la spazzatura.
Ogni fondamentale diritto umano è negato. I malati sono molti, il cibo viene servito una volta al giorno. I migranti sono senza luce, intossicati dal fumo, senza nulla da fare se non camminare in circolo fra ratti enormi, escrementi umani e montagne di spazzatura, nelle macerie di una stazione, il capolinea della politica sull’immigrazione Europea.
Centinaia di persone giovani e malate sono bloccate nella parte abbandonata di una città della quale non conoscevano nemmeno il nome, in attesa che qualche politico decida il loro destino.
“Ma perché fino a qua, a piedi, rischiando la vita, spendendo i risparmi della tua famiglia, senza la certezza di arrivare in Francia? Un paese che tu sai pronunciare ma che non hai mai visto, del quale non sai nulla”, chiedo ad Asiz stupidamente.
“So che sarà difficile arrivare dove voglio arrivare, ma il dubbio di farcela è meglio che la certezza di morire’’, mi risponde.
Un migrante arriva fino al bar di fronte e chiede qualcosa da bere. La barista gli sorride e gli offre un succo di frutta, imbarazzata perché impotente di fronte a tutto questo.
















(The Post Internazionale)

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