Birmania, Mohammed come Aylan annegato durante la fuga dalla guerra...
Il padre del bimbo rivela l’accaduto in
un’intervista trasmessa alla Cnn: l’attacco dei birmani e poi il fiume da
attraversare diretti al campo di raccolta in territorio bengalese
di Paolo Salom
Si era detto: mai più. E invece ci
ritroviamo ancora una volta a osservare sgomenti il corpicino di un bambino
riverso nel fango della battigia, pochi stracci addosso, forse un pannolino. La
sua vita si è spenta nelle acque limacciose del fiume Naf, mentre con la madre,
il fratellino e lo zio cercava di sfuggire a un destino di persecuzione e sofferenza,
quel destino che si è appiccicato addosso al popolo Rohingya come le mosche al
miele. Mohammed Shohayet aveva 16 mesi soltanto e forse una vaga idea di che
cosa fosse l’esistenza.
Come per il piccolo Aylan Kurdi, trovato su una spiaggia turca nel settembre 2015, annegato mentre cercava di sfuggire con la
famiglia alla guerra civile in Siria, l’immagine sta facendo il giro del mondo,
di social media in social media, suscitando emozione e anche rabbia. Perché un
bambino non dovrebbe morire così. Ma quanti Mohammed hanno conosciuto questa
fine nelle acque calde ma infide che separano, prima di gettarsi nel Golfo del
Bengala, la Birmania dal Bangladesh? Da tempo organizzazioni umanitarie come
Amnesty International e Human Rights Watch stanno cercando di sollevare il velo
di omertà che cela al mondo quanto sta accadendo nello Stato birmano di
Rakhine, all’estremo occidente. Persino una dozzina di premi Nobel hanno levato
la loro voce — nella forma di una lettera aperta a un altro premio Nobel, Aung
San Suu Kyi, ora al vertice del governo nel Paese del Sud-Est asiatico — ,
perché si faccia finalmente qualcosa per fermare le uccisioni indiscriminate, i
bombardamenti di poveri villaggi da parte di moderni elicotteri da guerra, la
caccia all’uomo che ha spinto migliaia di Rohingya a cercare rifugio oltre
confine, con i rischi che le fughe organizzate così portano con sé. La risposta
delle autorità birmane finora è stata monocorde: «È tutto inventato, solo
propaganda». Anche Aung San Suu Kyi, un tempo paladina dei diritti umani, oggi
criticata per la sua indifferenza al problema, si è limitata ad attribuire alle
«esagerazioni dei media occidentali» le notizie che denunciano un «vero e
proprio genocidio ai danni dei Rohingya».
La storia di Mohammed Shohayet — se sarà confermata da fonti indipendenti — solleva il velo su
una realtà di sofferenza e disperazione. È stato il padre del bambino a
rivelare quanto accaduto in un’intervista trasmessa alla Cnn. L’emittente ha
precisato come, dal momento che lo Stato di Rakhine è chiuso ai giornalisti e
agli operatori umanitari, «non sia stato possibile verificare l’autenticità di
quanto riferito». Restano le immagini, la fotografia di un bimbo abbandonato
nel fango e la parole di Zafor Allam, giovane padre rimasto solo. «Sono scappato
con la mia famiglia — ha detto alla Cnn —. Il nostro villaggio è stato colpito
dalle raffiche degli elicotteri. Non potevamo restare: chi è rimasto a casa è
stato ucciso dai soldati birmani, bruciato. Questo è accaduto ai miei nonni».
La fuga di villaggio in villaggio, attraverso la giungla. E poi quel fiume da
attraversare per arrivare al campo di raccolta di Leda, a Teknaf, in territorio
bengalese. Prima il papà, per verificare che tutto sia a posto. Poi gli altri:
«Ma quando stavano tutti per salire sulla barca la polizia ha cominciato a
sparare». Il panico ha fatto il resto, la barca non ha retto, si è rovesciata
nella corrente. E chi non sapeva nuotare, è sparito nei mulinelli grigi di
fango, per essere poi depositato in un’ansa del fiume, nel fango più simile
alle sabbie mobili che abbondano nelle pagine di Salgari ambientate proprio in
questa regione.
I Rohingya sono, oggi, una minoranza negletta della
Birmania multietnica. Un milione di non cittadini: il governo li considera
“immigrati clandestini” dal Bangladesh anche se gran parte di loro vive da
generazioni nel Paese. Di fede musulmana, sono stati presi di mira anche dai
nazionalisti buddhisti, come il monaco Virathu, considerato il leader
antimusulmano più influente (e impunito) del Paese: pogrom, omicidi,
persecuzioni. E il silenzio di Aung San Suu Kyi...
(Corriere della Sera Esteri)
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