In prima linea tra i #profughi in fuga da #Mosul...




 
Responsabile Comunicazione Intersos

Jeda'ah Camp, al Qayyara: prima linea dell'accoglienza per gli sfollati in fuga dalla battaglia di Mosul, ultimo campo ufficiale prima della linea del fronte. La polvere del deserto spazza la pianura. Il fumo dei pozzi di petrolio in fiamme oscura il cielo e penetra nei polmoni.
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Mercoledì l'esercito iracheno ha bloccato l'accesso per un controllo a tappeto, tenda per tenda, famiglia per famiglia, in seguito a un attacco notturno condotto da Isis contro un villaggio a pochi chilometri dal campo, in cui sono stati uccisi 12 soldati di Baghdad. Si era sparsa la voce che alcuni membri di isis potessero essersi infiltrati nel campo travestiti da donne, confondendosi tra gli abitanti del villaggio in fuga.
Mentre sono già iniziati i ritorni nelle zone dichiarate in sicurezza dalle forze governative (700 famiglie sono ripartire in questa settimana verso la cittadina di Soura, 20 km verso Mosul, senza neanche sapere in che condizione avrebbero trovato la loro casa), nell'area alcune enclave sono ancora controllate da "Daesh".
Il giorno dopo la perquisizione tutto sembra normale. Fervono i traffici intorno alle bancarelle dei venditori sullo stradone polveroso ai margini delle tende. Si susseguono le distribuzioni di cibo e materiali (che le famiglie spesso rivendono poco dopo fuori dal campo per mettere qualcosa nel portafoglio). Bambini giocano a pallamano sul pietrisco sotto lo sguardo di un educatore, le bambine in fila, sedute, fissano la rete di recinzione e mi sorridono. Gli arrivi sono continui: ogni giorno decine, centinaia di famiglie in fuga dai combattimenti.
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Il team di INTERSOS si muove tra le tende per raccogliere i bisogni delle persone, identificare i problemi più gravi, seguire i casi più urgenti, offrire supporto psicologico e legale. Nonostante i numeri ancora lontani dalle previsioni di almeno 200mila profughi fornite dalle Nazioni Unite (ma in crescita costante con l'avanzare della battaglia: oggi si sono superati i 70mila), la situazione umanitaria è estremamente difficile.
Ecco Firas un bambino di 9 mesi con due grandi occhi scuri e problemi ossei che gli impediscono di muoversi. Ha bisogno di calcio. Ma nel campo il latte scarseggia e non è adatto a neonati. Mancano medicinali specifici. Nel villaggio da cui proviene non ha mai visto un dottore e non ha mai ricevuto alcuna cura.
Ecco una donna incinta di tre mesi, affetta da toxoplasmosi, ancora in attesa di ricevere medicinali e assistenza. Eccone un'altra, malata di cancro, che da settimane non può ricevere i cicli di chemioterapia indispensabili alla sua sopravvivenza. Ecco un uomo anziano, affetto da una grave forma di asma, anche lui senza medicine. Mentre ci parla gli trema una mano, ci chiede, dove, quando potrà trovare un medico.
A fine giornata, raccoglieremo 50 casi bisognosi di assistenza medica, 8 di supporto psicologico, 25 di assistenza legale (moltissimi sfollati hanno perso i documenti di identità, i bambini mai registrati tecnicamente non esistono). Mohammad, il nostro operatore con cui cammino tra le tende, prende nota, distribuisce informazioni e consigli, predispone le risposte più urgenti.
Scopro che anche lui è uno sfollato: un giovane dottore fuggito circa due anni fa da Mosul, dove è rimasta la sua famiglia. "What can i do? What can i do? They need my help - mi ripete - Avrei potuto trovare lavoro in un ospedale di Erbil. Un posto confortevole e sicuro. La mattina potrei uscire in taxi. Ma il mio posto è qui, dove aiuto veramente le persone. La mia gente. Penso sempre che fra queste persone, magari tra qualche giorno, potrei trovare anche la mia famiglia".
Le meccaniche del conflitto si confondono con le ragioni della miseria. Un uomo ci avvicina per dirci: "Mia moglie è depressa, aveva tre figli, tutti morti di malattia. La più piccola aveva 14 giorni. Un terzo figlio si era avvicinato all'Isis. Quando siamo arrivati al campo l'hanno portato in prigione. Così mia moglie è diventata ancora più depressa". Lui e sua moglie hanno 45 anni e altri 8 figli di cui prendersi cura, quattro ragazzi e quattro ragazze.
Ecco l'emergenza umanitaria di cui ancora non si parla abbastanza. Una crisi che sarà lunga e difficile perché lunga e difficile è la battaglia, e il futuro pieno di incognite. Perché questa non è una guerra che si combatte sul campo di battaglia con gli eserciti schierati uno di fronte all'altro con i loro cavalieri. Questa è una guerra urbana, che si combatte casa per casa, con diversi attori e interessi in gioco, difficili perfino da enumerare (peshmerga curdi, esercito iracheno, milizie sciite, e le potenze globali che si muovono dietro i combattenti), con il peso di anni di scontri, sospetti, odi che si sono accumulati negli anni. Una guerra nella quale i civili sono enormemente esposti.
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È a questo che dobbiamo essere preparati. Ogni emergenza di sfollati ha delle cause nella crisi da cui è generata ma anche delle conseguenze destinate a perdurare: nuove linee di faglia, nuove scosse. Instabilità, sofferenza e rabbia che compromettono ulteriormente equilibri già fragili, o inesistenti.
Le case distrutte, le vite perdute, i legami famigliari e amicali spezzati, le violenze subite, le violenze osservate, l'assoluto bisogno di sostegno materiale e psicologico: ferite difficili da cicatrizzare. Mentre lasciamo il campo, tornando verso Erbil, una fila di pecore ci attraversa la strada. Sono sporche, nere, come il fumo di petrolio che ne impregna lana...

(L'Huffington Post)

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