Paradiso nell'inferno siriano: ecco l'isola di Tartus che piace a regime e benestanti...





Di Luca Lampugnani | 16.04.2014
"Hon ma fi shi", tradotto dall'arabo "qui non sta succedendo nulla". Se vi dovesse capitare di passare per Tartus e di interrogare qualche autoctono sulle conseguenze della guerra civile siriana nella sua città, non è difficile che otteniate una risposta simile. Mentre Damasco, Aleppo, Homs e Latakia continuano infatti ad essere teatri di sanguinosi scontri tra regime e ribelli - fronte quest'ultimo frammentario tra oppositori della prima ora, qaedisti, jihadisti e militanti stranieri supportati dall'Occidente e dalle principali potenze sunnite -, la città di Tartus, ad un passo dal confine con il Libano e secondo porto in ordine di importanza della Siria, è una sorta di paradosso.
Paradiso terrestre nell'inferno che ha vissuto e sta vivendo tutt'ora il Paese, la città costiera che si affaccia sul Mediterraneo - e dove non a caso è attraccata parte della flotta militare di Mosca - viene spesso tralasciata dalla grande cronaca internazionale. Qui continuano ad arrivare rifugiati e sfollati, o anche semplicemente benestanti che hanno affittato case a Tartus per sfuggire alla guerra. Qui si concentrano i principali investimenti (per il mercato interno) degli uomini d'affari della Siria. Qui, in ultimo, l'appoggio incondizionato al regime - spesso mantenuto più per interesse che per vera e propria 'fede' - garantisce prosperità e pace, tranquillità e lontananza dal conflitto.
Sfruttata da Damasco come simbolo di un sistema pre-2011 che funziona, di un benessere che regnerebbe in tutta la Siria se solo i 'terroristi' deponessero le armi, i media di tutto il mondo preferiscono invece dipingere Tartus (quando lo fanno) come una sorta di ultimo baluardo alawita - minoranza cui appartiene Bashar al-Assad e ramificazione dello sciismo, particolarmente radicata nella città -, punto di partenza dove costruire il feticcio di uno stato ad uso e consumo esclusivo degli alawiti. Eppure, sia l'una che l'altra interpretazione, sono a tutti gli effetti completamente lontane dalla realtà.
Se ad esempio la TV e l'informazione siriana in generale, sotto l'ovvio controllo di Damasco e del partito Baath, continuano ad alimentare il mito di Tartus come città perfetta e intoccabile - definita da Jadaliyya "governmental town" -, lontana dalle minacce del conflitto, è pur vero che la guerra civile ha inevitabilmente intaccato il tessuto sociale della città. Senza bisogno di armi, infatti, le interruzioni alla rete elettrica e a quella del gas, il richiamo di molti giovani riservisti della città e soprattutto l'arrivo di sfollati e rifugiati sono bastati per mutare una patina di unità solo superficiale, in realtà smentita da un crocevia (ovviamente tenuto sotto stretto controllo) di etnie che coesistono, tra diffidenze e differenze, in una sorta di bambagia artificiale architettata dal regime. Risvolto, quest'ultimo, che mette sostanzialmente a tacere anche le voci di coloro che descrivono Tartus come la roccaforte di un Paese solo ed esclusivamente per alawiti.
Insomma, la realtà è che la città costiera riesce ad essere contemporaneamente il simbolo di due diverse interpretazioni (e facce) della Siria. Una, voluta da Assad, unitaria e fedele al regime, a Damasco e al Baath, fieramente di supremazia al potere alawita e nazionalista sia in politica che nella vita sociale - a Tartus, cosa impossibile da vedere in altre città, si svolgono manifestazioni in favore ad esempio della nazionale di calcio. E un'altra, decisamente più veritiera, ma ovviamente tenuta nascosta da Assad, di una Siria multietnica e multi religiosa, in grado di vivere (con le dovute aperture da tutte le parti in gioco) senza particolari screzi nonostante profonde, e probabilmente insanabili, differenze.
Ciò che il regime vuole, in estrema sintesi, è che l'esempio (fittizio nei fatti) di Tartus rappresenti, parafrasando il Gattopardo e Tomasi di Lampedusa, una realtà dove nulla cambia affinché nulla cambi. Le riforme che potevano essere messe in campo da Damasco partendo dalla città costiera non sono state affrontate, al contrario Assad ha scelto di continuare sulla sua strada senza mutamenti, continuando nella rappresentazione teatrale di una Tartus unitaria, simbolo di come sarebbe l'intero Paese senza conflitto. Ma comunque una punta di un iceberg di una realtà ben più complicata, dove la repressione del regime verso i suoi nemici interni ha portato alle prime proteste che, in seguito, sono diventate trampolino di lancio per il terrorismo e gli interessi internazionali sulla Siria.    

(International Business Times)

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